Nardu, il Vampiro

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Nardu
view post Posted on 31/5/2006, 20:23




Qui segue il racconto della storia di Nardu, tratto da diverse fonti.

Quella notte nel cielo brillavano solo poche piccole stelle di una luce tenue, quasi impercettibile, la maggior parte di esse erano coperte da cupe nubi che si addensavano nella volta color blu intenso.
Solo un piccolo astro luminoso risplendeva intenso, era come un piccolo puntino chiaro che si distingueva facilmente dal resto del cielo color notte. Quell’astro era soprannominato “Stella della Sfortuna” poiché si raccontava che ogni qualvolta brillasse, qualcosa di terribile accadeva ad un membro della mia Famiglia.

L’ora che segna la fine della prima metà della notte era passata da non molto quando la porta della stanza bussò.
L’occupante aprì di scatto gli occhi; ben sapeva che notte era ancora fonda e questo lo intimoriva. “Chi potrà mai essere a quest’ora?” si chiese.
Nonostante avesse avuto a disposizione solo poche ore di sonno i suoi occhi scrutavano la stanza senza la minima traccia di stanchezza, la sua mente era limpida anche se occupata da cupi pensieri.
Si alzò dal letto scomodo proprio mentre colui che si trovava all’esterno della stanza decise di bussare ancora con più insistenza e stavolta incitò anche con le parole: “Veloce, mio Signore, il Padrone la sta aspettando ed è molto impaziente lo sa…”
Come se non avesse parlato nessuno il proprietario della camera si mise un paio di stivali di ottima fattura, che erano appoggiati vicino al letto, indossò una maglia in pelle, raccolta tra i molti indumenti dell’armadio e infine infilò il pugnale che aveva impugnato anche durante il riposo nel fodero legato alla caviglia destra e l’altro pugnale, più grande e riccamente decorato, che teneva nascosto in un angolo, alla cintura. Stava dirigendosi alla porta per uscire quando si bloccò di colpo, si girò e prese il mantello nero indossandolo: non avrebbe potuto presentarsi di fronte al Padrone senza.
Aprì la porta proprio mentre l’elfo all’esterno stava per bussare nuovamente; quest’ultimo rimase un istante interdetto di fronte alla figura che gli si presentava nonostante lo avesse incontrato più volte in varie occasioni.
Questa era una cosa del tutto comprensibile dato che un volto grigio dall’espressione cupa, segnato da una profonda cicatrice, che ne solcava il lato sinistro passando per l’occhio, contornato da un paio d’orecchie a punta, anzi solo un orecchio a punta poiché quello destro era stato in parte mutilato, probabilmente durante uno scontro, un corpo atletico e potente, ancora molto giovane ma gia ricco dei segni che accompagnano un guerriero e degli occhi che davano l’impressione di nascondere chissà quante verità, una più pericolosa dell’altra, delineavano quello che era l’Elfo della Notte più crudele e pericoloso, dopo il Padrone, che lo schiavo avesse mai conosciuto.

Si diressero verso la Grande Sala dove il Padrone attendeva. L’elfo con il mantello aveva un passo sicuro e deciso oltre ad un portamento quasi regale nonostante mantenesse quella disciplina tipica di chi ha passato molti inverni sotto le armi: lo sguardo puntato in avanti del tutto inespressivo; la sua mente stava formulando una miriade di possibili cause a quella chiamata così improvvisa e inaspettata.
Il servo aprì il portone che immetteva direttamente nella Sala e appena il mantello dell’elfo che lo aveva seguito l’ebbe attraversato glielo richiuse alle sue spalle. Senza curarsene, l’elfo dal viso sfregiato, continuò la sua avanzata verso la poltrona alla fine della lunga Sala dove si trovava, comodamente seduto, colui che lo aveva mandato a chiamare.

Il Padrone era un anziano Drow, che dall’aspetto si sarebbe detto saggio ma soprattutto spietato e crudele, e nulla era più vero. Alle mani numerosi anelli cingevano le sue dita, anelli dagli inimmaginabili poteri o dai prestigiosi valori onorifici e al collo portava il manufatto a cui doveva il titolo di Padrone: la collana d’oro nero, un materiale sconosciuto in superficie, la quale attribuiva a chi la portasse legittimamente la posizione di Padrone sui membri della Famiglia.

“Padre…” iniziò a dire l’elfo nero appena giunto in prossimità della poltrona ma fu interrotto “Poche parole: la Signora ti aspetta con ansia.”.
“Come? Lei vuole vedermi…” sussurrò il più giovane dei due, era più una riflessione che una domanda vera e propria ma nonostante ciò l’altro rispose “Niente domande; quand’Ella chiama non si deve disobbedire, per nessun motivo, ed è gia troppo che ti sta attendendo, figlio mio.”
La Signora Nera, l’unica figura al disopra del Padrone, voleva vederlo: o il destino lo stava benedicendo o lo stava malendendo con la più terribile delle sciagure.




Uscirono dal palazzo, il Padrone subito seguito dal figlio, in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. A mala pena si udiva il rumore dei loro passi cadenzati, solo i più scaltri scorgevano il fruscio dei loro scuri mantelli immersi nelle ombre dalla notte eterna del sottosuolo.
Se qualcuno, per errore, avesse incrociato il loro percorso, trovandoseli di fronte, sarebbe rimasto pietrificato: le due figure erano inquietanti, dai volti impassibili che trapelavano solo un forte sentimento d’odio, avvolte dal buio e dal silenzio; sembrava si stessero dirigendo al patibolo per essere giustiziati…

Raggiunsero il Tempio, appena fuori dal borgo, nel quale la Famiglia aveva la sua sede principale.
La costruzione era poco oltre il limitare della grande foresta che sorgeva in quelle zone, al centro di un piccolo spiazzo tra la vegetazione folta.
Le piante delle foreste sotterrane sono molto diverse da quelle della superficie: molto meno rigogliose, completamente prive di fiori o altri elementi colorati o profumati e il tipico colore verde è molto più scuro e intenso, tendente quasi al bluastro, forse per effetto della scarsa illuminazione dell’ambiente.
Le mura del Tempio erano antiche ma solide e massicce, davano l’impressione di essere lì da sempre e di essere intenzionate a restare al loro posto fino alla fine dei tempi. L’entrata era presidiata da strani soggetti, sicuramente elfi scuri, i quali indossavano una nera tunica, avevano il capo ricoperto da uno scuro cappuccio, che arrivava fino a nascondere completamente il volto alla vista e tra le mani stringevano un’enorme spada, in posizione verticale, esattamente di fronte al corpo, con l’elsa all’altezza del cuore. Erano quattro e diedero l’impressione di essere immersi nel sonno, o addirittura d’essere defunti, siccome non si mossero minimamente, né compirono alcun tipo d’azione, al passaggio del Padrone e del figlio; il primo non diede peso alle guardie, poiché era abituato a varcare l’entrata del Tempio, ma il secondo rimase molto stupito da quello strano comportamento, anche se non lo diede a vedere all’esterno, dato il fatto che era per lui la prima volta che oltrepassava quella soglia.

L’interno del tempio era scarsamente illuminato da torce appoggiate agli appositi sostegni. Appena furono entrati si trovarono all’interno di un corridoio molto lungo, dalle pareti strettissime e a prima vista solidissime. Il Padrone camminava sicuro, percorrendo un percorso che aveva compiuto chissà quante altre volte, seguito dall’altro elfo che osservava incuriosito tutto ciò che incontravano, anche se ad ogni passo verso l’ignoto la tensione aumentava. “Questo tempio, probabilmente, può essere usato come fortezza” pensò il giovane elfo, ne erano prova le mura solidissime e quel corridoio, unico accesso all’interno, facilmente difendibile da qualsiasi attacco.
Terminato il corridoio, i due entrarono in una grande stanza, che non era illuminata da torce come quelle del corridoio, ma una tenue luce azzurro-blu permeava l’ambiente: nessuno dei due sapeva da dove provenisse, ma entrambi convenivano sul fatto che l’effetto provocato era molto spettrale. Questo era accentuato anche dalle figure vestite allo stesso modo delle guardie all’entrata che compivano i loro doveri nel silenzio più assoluto; come le guardie anche questi avevano il grande spadone che però, era tenuto allacciato dietro la schiena. La stanza era divisa in corridoi da due file di colonne semplici, senza decorazioni, ma molto robuste, a conferma dell’idea del giovane, di tempio-fortezza. Le parti laterali della stanza erano maggiormente avvolte dall’oscurità rispetto a quella centrale; qui vi si trovavano alcune panche, spesso occupate da qualcuna delle figure vestite di nero, sedute o inginocchiate. Scrutando con attenzioni le pareti laterali della stanza, se si era in grado di attraversare il velo d’ombra che li copriva, si potevano scorgere molti ingressi che probabilmente conducevano ad altre stanze. Il giovane elfo notando ciò formulò che la struttura del tempio-fortezza doveva proprio essere costituita da varie stanze separate da massicce pareti e collegate da strettissimi corridoi, simile ad una ragnatela.

Il Padrone attraversò la stanza, camminando secondo un percorso immaginario tra dei due colonnati, giungendo dal lato opposto dove, in ginocchio, alcune figure scure adoravano un altare. L’altare con sopra una statua di dimensioni naturali rappresentante la Dea Lolth, era circondato da alcune candele, dalle forme molto particolari e riccamente decorate. L’immagine scolpita nella roccia fissava l’entrata del corridoio che sopraggiungeva dall’entrata del tempio, come se tentasse di scacciare eventuali ospiti indesiderati. Ma il Padrone non si fermò, seguito sempre dal figlio che osservava attentamente l’ambiente che lo circondava. Dall’altare alle Dea girarono verso destra, camminando vicini alla parete che delimitava la stanza, fino a giungere in prossimità di un piccolo ingresso seminascosto dal buio: lo varcarono. Oltre l’ingresso alcune torce illuminavano un corridoio strettissimo, che in realtà era una scalinata dalla forma insolita: era poco ripida, anche se gli scalini erano molto alti, e curvava verso sinistra. Quando giunsero ad una specie di incrocio con una scalinata simmetrica per congiungersi e imboccare un unico corridoio il giovane intuì dove si doveva trovare. Dall’altare della Dea si poteva andare indifferentemente a destra o a sinistra, in entrambi i casi si sarebbe trovato un piccolo ingresso che conduceva a delle scale che scendendo simmetricamente si incontravano esattamente dietro l’altare, ad un’altezza inferiore, dove iniziava un corridoio che era il proseguimento, secondo una linea immaginaria che partiva dall’entrata e proseguiva per la grande stanza. Il Padrone imboccò il corridoio, che si rivelò molto breve: si apriva dopo pochi metri in uno stanzino quadrato, abbastanza piccolo. Lo stanzino era del tutto spoglio e aveva solo un ingresso, vale a dire il corridoio appena percorso.

Il Padrone attese e prima che il figlio potesse interrogarlo di fronte a loro, di fronte al corridoio d’entrata, si aprì un varco attraverso la parete: entrarono.
Appena ebbero oltrepassato la soglia la parete gli si richiuse dietro ma nessuno dei due ci fece caso; avevano di fronte una scalinata molto ripida, dalle pareti, come ormai era di prassi, massicce e strette.
Iniziarono la discesa che sembrò interminabile. Dopo, non riuscirono a capire quanto, le pareti di pietre squadrate e unite ad incastro furono sostituite dalla roccia viva della terra e le torce appese divennero ancora più rade.
Giunsero dopo un’infinità di scalini alla fine della discesa: entrarono in una stanza dalle dimensioni non molto grandi. La stanza non aveva vere e proprie pareti ma sembrava molto una grotta scavata nella roccia ed aveva una forma vagamente ellittica; era illuminata da cinque torce, che la lasciavano praticamente in penombra. Il Padrone iniziò l’attraversata della stanza che sembrava deserta, ma quando giunsero in prossimità dell’estremità opposta alla scalinata si resero conto che non era così: due guardiani, uguali a quelli all’entrata del tempio, presidiavano una porta chiusa.
Quando il Padrone giunse in prossimità della porta essa fu aperta dall’interno: i due famigliari entrarono nella nuova stanza.
La stanza era illuminata della stessa luce azzurro-blu che incontrarono in precedenza ed esattamente come prima non c’erano torce ne probabili fonti luminose. Al centro del nuovo ambiente, una stanza dall’esatta forma di semicerchio, c’era una specie di trono su cui era seduta una donna.
Il Padrone si voltò verso il figlio, lo scrutò per un attimo cercando di capirne i pensieri e le emozioni che il secondo abilmente nascondeva, poi si voltò ed uscì da dov’era entrato chiudendosi la porta alle spalle.
Il giovane incerto sul da farsi abbozzò un mezzo passo in avanti e poi si fermò cercando di intuire le reazioni della donna in risposta ai suoi movimenti: non accadde nulla, restò il silenzio. Dopo quel tentativo l’elfo non mosse più un muscolo e attese.
Passato un tempo interminabile, la Sacerdotessa finalmente volse lo sguardo verso di lui, si alzò in piedi, senza distogliere i suoi occhi da quelli del giovane e lo invitò ad avvicinarsi “Vieni più vicino Nardu…”




Il giovane elfo della notte, cercando di nascondere il meglio possibile le proprie emozioni, iniziò una lenta avanzata verso l’altare della Sacerdotessa, avvolto nel più assoluto silenzio.
Giunto ai piedi della piccola scalinata, in cima alla quale la Signora sedeva, Nardu si fermò.
“Tradire la propria famiglia equivale a tradire la Grande Dea…” prese a dire la donna, con un tono sommesso, come se parlasse da sola, “…e nessuno può tradirla.”
Nardu non osava proferire parola; ciò che la Signora stava dicendo poteva essere molto pericoloso.
Per la prima volta la donna si rivolse direttamente al suo ospite: “Pensi di essere superiore a tutti noi?” chiese con un fare inquietante.
Un fiume di parole, domande, scuse ed emozioni risalì la gola del giovane, ma furono controllate e l’elfo rispose semplicemente “No…” affrettandosi ad aggiungere “…mia Signora”.
“Non devi mentire di fronte a me! Io sono una rappresentate della Dea Lolth! Nessuno può ingannarmi!”
L’elfo che temeva il peggio e non seppe cosa rispondere.
“Tua sorella è venuta qui da me, ieri notte, e mi ha riferito delle cose sconcertanti sul tuo conto…”
Ora iniziava a capire: Lilith, sua sorella. Non erano mai andati d’accordo, anzi, per la precisione si erano sempre odiati e molto spesso avevano attuato vari stratagemmi per conquistare il potere nella famiglia a danno del consanguineo.
Lilith era avvantaggiata essendo una donna e perciò privilegiata nella società, ma Nardu era ben visto grazie le sue ottime doti di guerriero, grazie alla sua potenza e soprattutto famoso per la sua fedeltà.
Purtroppo questa volta Lilith era riuscita ad abbattere proprio il suo cavallo da battaglia accusandolo davanti alla Sacerdotessa di tradimento.
Nulla era di più normale in una società cresciuta tra gli intrighi, gli inganni e la lotta per il potere di una sorella che mentiva per eliminare il fratello.
“…tua sorella ha giurato in nome della Dea di averti sentito rivelare informazioni segrete sulla nostra Famiglia ad una spia; io stessa in un primo momento non volevo crederle, ma era tristissima per l’azione che stava compiendo e soprattutto decisa a sopportare dei sacrifici per il bene di tutti…” stava dicendo quando fu interrotta di colpo da un urlo di rabbia del giovane “MENTE!”
Gli occhi di Nardu erano iniettati si sangue, le vene delle braccia e del collo pulsavano con furia, i muscoli erano contratti.
“Sono sempre stato fedele e lo sarò sempre! Lilith è la traditrice!”
“Metti in dubbio la parola di tua sorella? Una donna non può mentire di fronte alla Sacerdotessa! Ora non ho più dubbi, sei colpevole di tradimento e sarai condannato. Così ha parlato la Dea Lolth.”
Un colpo violento si scagliò dietro la nuca di Nardu; la vista del giovane iniziò ad annebbiarsi e prima di cadere nel buio l’ultima cosa che vide fu il volto soddisfatto di sua sorella che sogghignava.

Due guardie si erano avvicinate all’elfo di soppiatto e all’ordine della Sacerdotessa lo avevano colpito facendogli perdere i sensi.
Lo avevano incatenato e condotto nelle segrete del Tempio. Lì avrebbe atteso alcune ore, durante le quali i preparativi per la sua esecuzione si sarebbero svolti. Il cuore del traditore sarebbe stato donato alla Dea che lo avrebbe purificato nel fuoco eterno.
Il Padrone già sapeva dell’accusa che gravava sul figlio e sapeva anche che la sentenza era scontata, quando lo condusse al Tempio, ma mai avrebbe disobbedito ad un ordine della Sacerdotessa.
Lilith aveva mentito spudoratamente per ottenere l’egemonia sulla Famiglia: il padre era ormai vecchio e non svolgeva altro che una funzione rappresentativa, il fratello, che era sempre stato il suo ostacolo principale, sarebbe stato condannato a morte.




Le tenebre avvolgevano quella stanza minuscola. Non una finestra, non uno spiraglio. Solo roccia e una piccola porta quadrata d’acciaio massiccio costituivano l’ultima dimora del Figlio del Padrone, condannato come un vile traditore.
La rabbia e l’odio erano all’apice della loro essenza nell’animo dell’elfo che nonostante tutto manteneva una lucidità mentale e una freddezza nei ragionamenti spaventosa: non aveva nulla da perdere oramai.
Dei passi lungo il corridoio. Passi lenti e solenni. “Sono in due” intuì Nardu.
La porticina d’acciaio si aprì lentamente con un sonoro cigolio e la luce delle torce pervase la cella illuminando il volto tetro del prigioniero. Gli fecero cenno di uscire: l’ora era giunta.
Il guerriero mosse dei passi incerti verso il corridoio uscendo dalla cella; appena fu fuori i due Guardiani gli si avvicinarono per incatenarlo ma tutti avevano sottovalutato le capacità straordinarie del Figlio del Padrone.
Nardu con un movimento fulmineo si scostò evitando le catene e colpì con un calcio rotante la testa di una delle due guardie. Il collo del malcapitato non resse il colpo e si spezzò con un sonoro schianto, ma prima che il corpo di quest’ultimo giungesse a toccare terra, il prigioniero si era gia impossessato dell’arma della guardia con un movimento velocissimo di mani e calando un fendente ancora più veloce e preciso aveva decapitato di netto la seconda guardia che rovinò al suolo.
In un baleno i due Guardiani erano stati eliminati e giacevano a terra privi di vita; il fuggiasco recuperò il mantello color notte di uno dei due cadaveri e lo indossò, un attimo dopo stava gia correndo a velocità impressionante verso l’uscita.

Nardu non conosceva la via ma affidandosi al proprio udito, al proprio olfatto e soprattutto a proprio istinto correva in quel labirinto di corridoi come un ombra di morte senza volto.
Altri tre Guardiani, incontrati in diverse occasioni durante la fuga, furono freddati con un colpo preciso c’aduno, nella più assoluta discrezione.
Il fuggiasco dopo un tempo indeterminato giunse nella sala principale dove giaceva la statua della Dea Lolth. L’ambiente era poco illuminato e al momento pochissime figure incappucciate frequentavano la stanza. L’elfo puntò sulla discrezione nascondendo l’arma sottratta ad un Guardiano sotto il mantello, anch’esso trafugato, e lasciandosi avvolgere delle ombre si mosse come uno spirito solitario nella notte raggiungendo il corridoio che portava all’uscita senza essere visto da nessuno.
Imboccato il corridoio iniziò a correre a perdi fiato: aveva poco tempo prima che qualcuno si accorgesse delle sua fuga o dei cinque cadaveri sparsi per il tempio.
Riusciva ad intravedere l’uscita, mancavano pochi passi quando il ricordo del quattro guardiani all’ingresso lo fulminò. Appena uscì dal Tempio le quattro figure poste a presidio reagirono calando quattro micidiali fendenti che però furono evitati con un felino salto in avanti del fuggiasco che si aspettava una tale mossa. In un baleno Nardu si era girato su sé stesso estraendo l’arma e si era lanciato alla carica delle quattro guardie incappucciate. La prima cadde trafitta da parte a parte prima di rendersi conto dell’accaduto ma le altre tre non si fecero sorprendere così facilmente. Un Guardiano calò un fendete ma fu parato abilmente dalla lama di Nardu, che fu però messo in crisi da un affondo di un altro Guardiano. Con una rotazione improvvisa riuscì a sbilanciare il primo Guardiano usandolo come scudo verso l’attacco del secondo: questi spirò trafitto al petto dal suo stesso compagno che cadde un secondo dopo con la gola lacerata ad opera dell’abile spadaccino.
Un ultimo Guardiano restava ancora in vita, ma era visibilmente terrorizzato al cospetto di colui che aveva eliminato tre Guardie Scelte in un frammento di secondo senza riportare alcun segno della lotta. Disperato il quarto Guardiano si lanciò in una carica facilmente elusa dall’ex-generale che lo colpì alla schiena uccidendolo.

Nardu lasciandosi alle spalle il Tempio e nove cadaveri corse alla velocità massima che le gambe stanche gli permettevano diretto verso il palazzo della Famiglia.
Qui la notizia dell’esecuzione del Figlio del Padrone si stava diffondendo e perciò c’era un certo via vai di elfi, ma non fu un problema visto che il fuggiasco conosceva meglio delle sue tasche ogni minimo antefatto di quell’edificio e soprattutto aveva un’esperienza decennale come spia e assassino, perciò era abituato a infiltrarsi senza essere visto.
Giunse senza grande difficoltà nella sua stanza dove sperava di trovare ancora le sue cose e così fu. Recuperò il sue enorme spadone dalla lama color carminio sangue, molto scuro e intenso, di fattura eccelsa, forgiato da un qualche popolo di superficie abilissimo nell’arte della guerra, con incise le rune elfiche che ne indicavano il nome, Vendetta.
Indossò i suo vestiti, comodissimi e agevoli nei movimenti, rigorosamente del colore delle tenebre, ma abbandonò l’armatura che gli avrebbe impedito una fuga silenziosa e sicura.
Per ultimo frugò nell’armadio cercando uno scomparto segreto, lo trovò e lo aprì: raccolse un sacchetto di pelle e un pugnale. Il sacchetto conteneva delle monete d’oro e d’argento.
Il pugnale era sempre stata la sua arma designata per gli assassini: forgiato d’una lega ottenuta unendo l’argento e l’adamantio era colore nero perla, rune elfiche erano scolpite lungo la lama a testimonianza del nome, Sentenza.
Nardu si avvolse nel suo nero mantello, coprendosi il capo con il cappuccio, ed uscì di soppiatto dalla sua camera.

Mentre camminava lungo i corridoi quasi deserti dell’ala nord-est del palazzo, il Principe Rinnegato, sognava in cuor suo un’amara vendetta nei confronti della sorella Lilith.
Pochi corridoi lo separavano dall’uscita del palazzo quando Nardu udì il rumore distinto di numerosi passi; fece un silenzioso balzo indietro e si appiattì in una rientranza della parete avvolgendosi meglio nel mantello: sfruttando la scarsa illuminazione riuscì a spacciarsi per un’ombra. Tese l’orecchio: cinque individui camminavano in fila e si dirigevano verso il suo nascondiglio. Sempre più vicini, ad ogni passo; erano ormai vicinissimi. Probabilmente erano la scorta di qualche persona importante della Famiglia. Il fuggiasco era avvolto nel mantello e stringeva saldamente il suo pugnale attendendo.
Passò la prima guardia e subito dopo la seconda, seguita dalla terza. Nessuno si accorse dell’elfo nascosto tra le tenebre.
Il quarto elfo altri non era che Lilith, la sorella di Nardu, subito seguita dall’ultima guardia. Probabilmente si dirigevano ad assistere all’esecuzione pubblica del traditore ignari della sua fuga.
Il Figlio del Padrone avrebbe potuto aspettare che il gruppo passasse per poi fuggire indisturbato ma il desiderio di vendetta era troppo forte.
Appena il quinto elfo oltrepassò il suo nascondiglio Nardu gli fu dietro e gli tagliò la gola con il pugnale senza emettere un suono; accompagnò il cadavere dell’individuo appoggiandolo a terra nel silenzio e nessuno degli altri membri del convoglio si accorse dell’accaduto.
Il Vendicatore Silenzioso avanzò di soppiatto alle spalle della sorella raggiungendola. Le mise una mano sulla bocca mentre con l’altra le spingeva Sentenza, ancora sporca di sangue, nella schiena. Spinse con forza e con rabbia sfogando tutto il suo odio verso colei che lo aveva condannato alla morte o nell’ipotesi migliore all’esilio eterno.
Accompagnò il cadavere della sorella morente stendendolo sul pavimento: guardò negli occhi scuri la vita che abbandonava il corpo e le diede il colpo di grazia recidendogli la giugulare con un taglio preciso.

Le guardie della scorta si accorsero di essersi divisi dalla loro padrona molti minuti più tardi e tornando sui loro passi la trovarono morta immersa in un lago di sangue a poca distanza dalla quarta guardia, morta anch’essa. Dell’assassino non vi trovarono traccia anche se tutti, quando seppero della fuga di Nardu, intuirono l’accaduto.
L’elfo aveva abbandonato senza difficoltà il palazzo ed era fuggito, a piedi, dalla terra degli Elfi Neri, diretto verso la superficie intenzionato a non tornare mai più in patria.


Tratto da “La storia della Famiglia” testo antico custodito nel Tempio della Madre Nera.






Sono anni che viaggio senza meta, cibandomi di ciò che trovo, dormendo all’aperto sdraiato sulla dura roccia, lottando per sopravvivere, senza fermarmi per più di qualche giorno nello stesso luogo.
Sono diventato un rinnegato da qualsiasi società, un’ombra solitaria destinata ad estinguersi al sorgere dell’ultima alba.
Dopo tutti questi anni non ho dimenticato ciò che successe quella notte al Tempio e ricordo ancora il volto di Lilith privo di vita: l’unico ricordo che mi rallegra l’animo.




Non ricordo da quanti giorni ho lasciato l’ultimo villaggio, forse sei o sette, ma non importa.
Un nuovo villaggio mi si staglia di fronte: non è molto grande ma neppure di dimensioni discrete, in cima alla collinetta si trova il palazzo di quello che dovrebbe essere il signorotto locale, un bel palazzo, è enorme.
Il sole è tramontato da poco e le tenebre iniziano ad avvolgere tutto nel loro spettrale abbraccio. Per me non è un gran problema, sono abituato al buio, anzi preferisco l’oscurità alla luce, ma per gli umani non è così, loro si nascondo nelle ore notturne. Razza strana gli umani: sono infimi, deboli, dall’esistenza breve ed inutile.

Camminando per le vie completamente deserte di questo borgo un dubbio incerto attraversa i miei pensieri: solitamente nei villaggi che ho attraversato durante gli anni lontano da casa ho imparato che la maggior parte della popolazione si rifugia in casa o in osterie durante la notte, ma nonostante ciò la feccia della società, costituita da prostitute, vagabondi e poco-di-buono, anima le vie e le strade più nascoste. Questo villaggio invece è diverso. Non c’è traccia di nessun essere vivente per strada, né lungo le vie principali, né nelle stradine secondarie semi-nascoste. Nessuno, ma non è un gran dispiacere per me.

Un freddo vento mi ferisce il volto, nascosto dal cappuccio, facendo svolazzare il mio mantello nero. Devo trovare una locanda dove affittare una stanza. Sono giorni che non dormo e ho bisogno di riposo.
Sono passati numerosi minuti, la notte lotta ancora con gli ultimi barlumi di luce di un sole morente a ponente, e non sono ancora riuscito a trovare segni di civiltà. Non è possibile che questo villaggio sia abbandonato, i segni di vita sono evidenti eppure sembra che la gente abbia paura e si rifugi il prima possibile nelle proprie dimore dove crede di essere al sicuro.
Avvolto dai miei pensieri quasi non mi accorgo di un insegna che senza dubbio indica la presenza di una locanda: la porta è chiusa e non c’è segno di vita.

Mi avvicino all’edificio incurante dell’aria spettrale del luogo. Io, un Angelo della Notte, come venni definito tempo fa da un gruppo di umani che mi davano la caccia qualche tempo fa, non posso essere intimorito dalla notte e dai suoi segreti.
Appoggio la mano avvolta da un nero guanto sulla porta spingendo: è chiusa dall’interno. Busso con forza e attendo risposta tendendo l’orecchio.
Nessuna risposta e nessun rumore sopraggiungono dall’interno. Ormai la luce ha perso la sua battaglia e lascia il campo libero alle ombre. La mia pazienza è prossima all’esaurimento perciò busso con più energia.

Un rumore incerto attraversa le pareti della locanda, tendo l’orecchio: dei passi cauti e ovattati si avvicinano all’ingresso ma non riesco a distinguere quanti siano.
La finestra alla destra della porta si illumina di una tenue luce. I giochi di ombre creano effetti irreali sulla lastra di vetro mascherando l’interno dell’edificio.
Per un istante mi pare di intravedere un volto pallidocce nascosto dietro la finestra mi scruta; ma è l’immagine di un secondo e non riesco a focalizzare.
“Chi è la?” una voce maschile con tono quasi minaccioso oltrepassa quelle mura sonoramente.
La mia voce, più cadaverica del solito, risponde con quella che sembra una condanna di morte “Cerco alloggio.”
Un borbottio sommesso prende vita dietro alla porta, sicuramente più di un individuo vi si nasconde alle spalle.
I tipici rumori di lucchetti e serrature che si aprono giungono a me dall’interno della casa: stanno aprendo.
Un cigolio accompagna il lento aprirsi del varco. Una luce tenue scaturisce dall’interno con la porta ancora socchiusa.
Colui che stava aprendo esita un istante. Intravedo delle ombre muoversi furtivamente oltre la soglia.

Istintivamente, ancor prima che la mia mente ebbe il tempo di analizzare le informazioni trasmesse dell’occhio rapidissimo, il mio corpo si curva all’indietro, indietreggiando di poco più di un passo.
Quest’azione fulminea mi permette di schivare quelli che a prima vista sembrano due forconi scagliati da altrettanti uomini verso di me.
In una frazione di secondo gli occupanti della taverna, mentre uno spalancava la porta, altri due si erano lanciati in avanti impugnando le loro armi improvvisate. Sfortunatamente per loro dopo anni passati sotto le armi la mia mente e il mio corpo hanno assunto un atteggiamento di vigile perenne che mi permette di eludere ogni tentativo di cogliermi alla sprovvista.
Afferro i due forconi con forza, prima che i proprietari abbiano il tempo di ritrarli a seguito del colpo andato a vuoto, e sfruttando il peso del mio corpo li tiro a me il più forte possibile. I due aggressori vengono sbilanciati in avanti, colti alla sprovvista. Il giovane umano di destra colpisce con violenza lo stipite e cade a terra. L’uomo di sinistra, più corpulento, quasi mi travolge, ma blocco la sua rovinosa caduta verso di me con un pugno all’altezza del viso che lo fa precipitare al suolo con un rivolo di sangue che sgorga dal naso probabilmente rotto.
Alzo lo sguardo e ho giusto il tempo di intravedere che all’interno della stanza ci sono ancora tre uomini quando un quarto sbuca da dietro la porta, armato con un lungo coltello, e tenta di colpirmi.
Afferro il suo braccio, mentre calava un colpo incerto, e gli spezzo il polso in modo da fargli lasciar cadere l’arma. Stranamente l’uomo sulla trentina e ben piazzato dimostra una discreta tenacia un abbozza un goffo tentativo di liberarsi. Urto con forza la spalla, rotandola in modo da fargli abbandonare la sua sede e provocando un dolore acutissimo al mio avversario che cade in ginocchio con un polso rotto e una spalla lussata. Un netto colpo all’altezza del collo gli fa perdere i sensi rendendolo innocuo.

Volgo il mio sguardo, coperto dal cappuccio scuro, verso gli occupanti della taverna che mi osservano con volti sconvolti e rassegnati.
Entro nella stanza scarsamente illuminata da una torcia schermabile. Il più anziano dei tre uomini si pone tra me e gli altri due “Prendi me ma lascia la mia famiglia!”
Non capisco bene a cosa si riferisce e a dire il vero non ne ho il minimo interesse di saperlo “Sono qui per avere una stanza”
“Non sei una di quelle creature?! Non sei qui per…” inizia a dire l’oste ma lo interrompo bruscamente “Avete gia oltrepassato il limite della mia pazienza con quel goffo, inutile e soprattutto inspiegato tentativo di uccidermi. Desidero una stanza dove poter riposare indisturbato e non voglio saper altro delle vostre faccende.”

Vengo condotto dall’anziano e da uno dei suoi due parenti al piano di sopra dove mi viene indicata una porta. Oltrepassata l’entrata mi trovo in una stanzina modesta: un letto, una finestra, un piccolo mobile alla destra del letto, una sedia alla sinistra e un armadio in legno massiccio.
Entro e chiudo la porta dietro di me senza nemmeno guardare i miei accompagnatori. Mi dirigo subito verso il grande armadio osservandolo bene: è robusto e pesante anche se non molto grande. Afferrandolo con le mani lo sollevo e lo sposto in modo da metterlo come blocco per l’entrata. In questo modo sono sicuro di non essere disturbato. Delle voci giungono dall’esterno chiedendo spiegazioni per i rumori, ma le ignoro.
Mi tolgo il mantello e lo appoggio sulla sedia con Vendetta. Nascondo Sentenza sotto al cuscino e mi sdraio sul materasso consunto, ma quasi regale rispetto alla dura terra su cui sono abituato a dormire, e mi accingo a godermi il mio meritato riposo.




E’ passata una notte ed un giorno ed ora nuovamente l’astro luminoso si nasconde oltre l’orizzonte.
Voglio esplorare questa città e magari trovare qualcosa di interessante o qualche sprovveduto da derubare perciò decido si lasciare la taverna. Dopo aver indossato il mantello e le armi mi dirigo alla finestra, la apro senza far rumore e guardo fuori: l’apertura si affaccia su una via secondaria al momento completamente deserta. Salto giù e atterro una decina di metri più in basso piegando le ginocchia in modo da attutire il tonfo e non provocare rumore; voglio evitare di dover difendermi di nuovo dai proprietari della locanda.
Il vento gelido è ormai una consuetudine nelle mie camminate attraverso il borgo completamente deserto e dopo un paio d’ore non ho trovato altro che case serrate.
Ho una strana sensazione però: sento come di essere osservato e più volte mi è successo di intravedere come ombre muoversi tra un tetto e l’altro o in un vicolo, ma nulla di concreto. Potrebbero essere gli abitanti del luogo allarmati dai proprietari della locanda; non è la prima volta che mi danno la caccia e di certo non è un grosso fastidio, basta ucciderne un po’ e poi abbandonare il villaggio per evitare di essere seguiti.
Non ho trovato nulla, il villaggio, a parte il castello sulla collina, è costituito solo da case, qualche negozio e qualche taverna che però chiudono prima del calar del sole. Tanto vale tornare alla mia stanza, domani partirò nuovamente.

Mentre cammino lungo una delle vie principali sento un urlo: una donna che grida. Riesco ad udire i suoi passi, sta correndo a perdi fiato ma non sento la presenza di nessun inseguitore. Mi avvolgo nel mantello e mi appiattisco alla parete di quella che dovrebbe essere, a giudicare dall’insegna, la bottega di un fabbro, impugnando l’elsa della mia spada.
La donna non mi nota, avvolto dalle ombre, e oltrepassa il luogo dove sono nascosto correndo e urlando di terrore. Non ha segni evidenti di lotta e non c’è ombra di nessuno sulle sue tracce, nonostante ciò ella continua a correre.
Un istante dopo riesco a distinguere una figura molto scura e veloce, ancora ad una discreta distanza dalla fuggiasca, che si muove velocemente e con una furtività impressionate.
Il mio orecchio a stento riesce a percepire i passi rapidi, sicuri e cadenzati dell’inseguitore completamente nascosto dalle ombre. Quest’ultimo sta per oltrepassare il punto dove sono nascosto senza accorgersi della mia presenza quando ad un tratto decido d’intervenire. Sicuramente non sono mosso da sentimenti di generosità o carità, ma come spesso accade, salvare una giovane ragazza può portare a laute ricompense.
Facendo un mezzo passo in avanti, con un braccio allargo il mantello, mentre con l’altro estraggo la mia lama e la protendo in avanti con precisione stendendo il braccio; con un movimento del busto compio una mezza rotazione in modo da dare al colpo improvviso una velocità letale. Vendetta attraversa il collo del malcapitato senza difficoltà staccando la testa dal resto corpo dell’individuo che non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto della di ciò che stava per accadere. Stranamente sia la testa che il corpo si polverizzarono prima di toccare il suolo e quindi non rimase traccia del cadavere.

Ripongo lentamente la mia lama nel fodero osservando l’ambiente circostante alla ricerca di altre minacce: non c’è nessuno tranne me e la donna, che accortasi dell’accaduto si è fermata in quella via desolata.
Cammino verso colei che sicuramente mi è debitrice per il favore reso, anche se non so che intenzioni avesse avuto lo strano individuo che ho eliminato.
Con il fiato ancora affatica per lo sforzo la donna mi salta addosso dicendomi “Hai eliminato un vampiro! Mi hai salvata! Grazie infinite…”
Io mi scosto, evitando il suo abbraccio: evito queste dimostrazioni d’affetto che gli umani usano senza alcun motivo e ripenso a ciò che ha detto.
I Vampiri. Mentre ero nel sottosuolo ho sempre studiato molto testi d’ogni genere e più volte ho sentito parlare di queste creature della notte con cui si dica noi elfi neri dovremmo avere molte affinità. Purtroppo nel sottosuolo queste informazioni sono per lo più tratte da leggende. Da quando vivo in superficie ho sempre visitato biblioteche, santuari e comunque luoghi di sapere data la mia curiosità e anche se ho trovato altri riferimenti a questa razza i brani erano sempre incerti e inaccurati.

La donna dopo vari ringraziamenti mi porta a casa sua dove mi presenta alla famiglia e racconta come l’ho salvata dalle grinfie del vampiro. Mi viene spiegata la vera natura di questi essere, creature della notte appartenenti alle schiere dei non-morti che servono l’Oscurità.
Questo villaggio sorge ai piedi di quello che un tempo era il palazzo della famiglia Vlod, stirpe di nobili e valorosi guerrieri, che sempre lottò per difendere il villaggio dai soprusi. Un giorno, molti anni fa, uno strano vagabondo si diresse al castello e nessuno sa cosa accadde di preciso ai membri della famiglia, fatto sta che da qual giorno nessuno ne rivide mai nessun membro e durante la notte iniziarono a comparire i primi vampiri che poi andarono moltiplicandosi con il passare degli anni.
“Hai ucciso un vampiro. Verranno a prenderti. Accade sempre così quando qualcuno gli da fastidio. Verranno la notte prossima, fuggi durante il giorno e vai più lontano che puoi perché ti seguiranno.” mi ammonisce il padre della donna che ho salvato.
“Non puoi ucciderli, sono immortali, solo la luce li ferma e…ovviamente tu visto che ne hai ucciso gia uno.”
Non ho paura dei vampiri, non temo la morte o qualsiasi altra sventura e finalmente vedremo se è più forte la maledizione di queste creature o quella degli elfi della notte.

Trascorro tutto il giorno a casa della donna che mi deve la vita, chiuso in una stanza a meditare per riposare mente e corpo e prepararli al combattimento.
Poco prima del tramonto mi dirigo alla piazza dove avvolto nel mio nero mantello attendo la comparsa dei Cacciatori Oscuri.




Il vento sferza con forza e stavolta è accompagnato da una fitta pioggia che mi punge il volto. La luna e le stelle sono invisibili, coperte dai oscure nuvole e l’ombra è totale.
I miei occhi si abituano senza difficoltà alla scarsità d’illuminazione e tendo l’orecchio in ascolto per captare la presenza dei miei esecutori che non si fanno attendere.
Senza preavvisi o avvertimenti uno di essi mi si scaglia subito addosso alle spalle, al modo degli elfi neri, a conferma delle nostre affinità, ma sfortunatamente per lui non si inganna un Principe della Lame.
Estraggo Sentenza e senza voltarmi protendo il braccio all’indietro impugnando la lama di traverso. Il vampiro abbozza un paio di passi al mio fianco ansimante, con la gola squarciata, prima di cadere in un volo infinito dato che il suo corpo si polverizza prima di raggiungere il suolo. La mia lama in lega d’argento ed adamantio sembra particolarmente efficace contro queste creature.
Nel giro di pochi frammenti di secondo altri due vampiri sfidano la mia abilità. Stavolta con l’altro braccio estraggo Vendetta del suo fodero e utilizzando la spinta delle gambe anticipo uno dei due aggressori colpendolo in pieno busto e tranciandolo in due parti di netto. Prima che questi diventasse polvere mi giro e trafiggo da parte a parte il secondo aggressore estraendo la lama aiutato dalla gamba. Il mio avversario indietreggia di qualche passo ma si comporta come se nulla fosse successo e si rilancia alla carica. Abbastanza sbalordito decido di non sottovalutare i miei avversari e perciò mi protendo in avanti per anticipare il mio nemico e colpisco con il braccio sinistro conficcando Sentenza nel cranio del vampiro che diviene polvere prima di capire di essere morto.
Ora a lanciarsi all’attacco da tre parti diverse sono in cinque e li aspetto agguerrito armato di Sentenza e Vendetta.
Dopo numerosi scontri riporto qualche ferita di basso rilievo ma riesco ad eliminare tutti e cinque i miei avversari; purtroppo la maggior parte dei colpi anche se andati a segno non arrecano danno ai vampiri.
Purtroppo hanno capito che sono un avversario troppo forte per essere affrontato da alcuni di loro, perciò hanno deciso di attaccarmi tutti contemporaneamente.
Sono costretto a difendermi da tutti i lati e questo riporta alla mia mente i ricordi delle battaglie passate e invece di spaventarmi mi da maggior carica e voglia di sangue. Però, nonostante la mia foga e la mia abilità per ogni vampiro che elimino altri tre prendono il suo posto e anche prestando tutta l’attenzione possibile riescono a ferirmi in più punti.

No so quanto tempo sia passato ne quanti vampiri ho eliminato ma ormai sono esausto: gli arti non rispondono più ai miei comandi come vorrei, la mia mente non è più lucida e sanguino copiosamente dalle numerose ferite, cosa che sembra eccitare ancora di maggiormente le creature.
Un altro assalto di quelli che sembrano gli ultimi superstiti dei vampiri si scaglia su di me: sono in cinque.
Il primo si lancia con un salto su di me, ma riesco a muovermi più velocemente di lui pugnalandolo al cuore mentre è ancora a mezz’aria.
Il secondo approfitta della mia apparente assenza di guardia per cogliermi di sorpresa, sfortunatamente per lui la mia guardia era rimasta sempre vigile e mentre il colpo della creature notturna va a scagliarsi nella mia spalla la sua testa si stacca dal resto dal resto del corpo.
Sono stremato e ho di fronte a me ancora tre vampiri dei cinque iniziali; forse ho qualche speranza di farcela. Quando ad un tratto sento un rumore, quasi impercettibile, di un sasso che si sposta alle mie spalle, non ho il tempo di pensare che un sesto vampiro, che non avevo visto all’inizio, si avventa su di me. Lo anticipo colpendolo, senza voltarmi, con Vendetta trafiggendogli il petto. Ancora tre vampiri. Ma purtroppo i miei sensi per una volta mi hanno tradito: un settimo vampiro, molto più furbo e cauto degli altri si era avvicinato a mia insaputa alle mie spalle e mi colpisce violentemente alla testa.
La vista mi si annebbia, il dolore è allucinante. Non riesco a rimanere cosciente. Le gambe cedono e cado a terra. Poi buio…




Mi risveglio. Sono seduto su una sedia, per la precisione sono legato ad una sedia, e ho tutto con me: i miei indumenti e le mie armi nei foderi, ne sento il peso. Ho braccia e gambe immobilizzate. Nella stanza silenzio e probabilmente alcune torce illuminano l’ambiente, ma non riesco a vederle. Sono bendato.
Sento dei passi a poca distanza da me esattamente di fronte e poi una voce spettrale e autoritaria “Toglietegli le bende.”
Una mano mi slega la benda e i miei occhi bruciano per un attimo prima di abituarsi alla tenue luce delle torce alle pareti.
Di fronte a me si staglia la figura di un nobile, dall’aspetto cadaverico, attorniato da una decina di quelli che sembrano vampiri. Ai miei lati, ad una certa distanza di sicurezza, come se avessero paura di me, altri due vampiri mi osservano con timore.
“Hai eliminato cinquatacinque miei confratelli da solo…” disse la voce del nobile, la stessa che aveva parlato prima, mentre questi si avvicina di qualche passo “…io sono Darker Vlod, ultimo discendente della mia famiglia e come penso tu abbia capito sono un vampiro e da molto tempo…”
‘Ecco colui che probabilmente ha incontrato il vagabondo che quasi sicuramente era un vampiro’ è il mio primo pensiero, ma in fondo non mi interessa “Non mi importa chi tu sia!”
E ignorando le ferite ancora fresche stringo i pugni facendo forza con le braccia: le corde che legano i miei arti si spezzano e riesco ad alzarmi, nessun vampiro mi si avvicina, anzi quelli più vicini si allontanano.
“Siediti.” mi ordina con voce tranquilla Darker mentre i dieci vampiri alle sue spalle estraggono altrettanti archi e incoccano le frecce puntandole verso di me.
Faccio un passo avanti e subito due dardi attraversano la stanza colpendomi alle spalle e facendomi cadere seduto sulla sedia. Prendo un dardo e poi l’altro e gli estraggo ignorando il dolore: normali frecce in acciaio.
“Hai due scelte ora: puoi morire o puoi morire e divenire uno dei nostri.” mi propone il signore dei vampiri.
“Non sei intelligente come sembri, è ovvio che accetto di diventare un vampiro.” rispondo con un sogghigno.
“Bene e sia!” disse il signorotto avvicinandosi. Giunto a pochi centimetri da me mi fa segno di alzarmi dopo di che mi morde al collo.
Un dolore acutissimo mi pervade il corpo. Sono tentato di colpire il vampiro uccidendolo ma sono curioso e perciò sono disposto anche a perdere la vita, che in fondo per me vale così poco.
Dopo un qualche minuto il signore mi lascia andare e cado nuovamente seduto sulla sedia privo di forze con il capo chino. Alzo lo sguardo dopo qualche secondo. Vedo il vampiro gustare il mio sangue: un’offesa al mio onore di guerriero.
Mi rialzo rinvigorito e nuovamente al pieno delle forze, spinto dalla collera.
“Ben venuto tra noi, figlio mio…” stava dicendo Darker guardandomi con un volto affabile.
“Grazie paparino…” sussurro con un sogghigno mentre Sentenza attraversa il suo addome.
Darker Vlod indietreggia per il dolore e gli lacero la gola con un singolo colpo facendolo svanire come polvere.
Subito gli arcieri scoccano su di me una sequenza di frecce che a loro malgrado si rivelano del tutto inutili. Li ringrazio con un sorriso prima di lanciarmi su di loro e ucciderli uno dopo l’altro.

Nella stanza non è rimasto più nessuno e perciò mi incammino tranquillamente per il castello diretto all’uscita. Non temo nessuno, il mio corpo è più forte che mai, i miei sensi più acuti. I vampiri mi evitano e mi lasciano abbandonare il castello indisturbato.
E’ quasi l’alba quando esco dal castello. La luce scaccia le tenebre sempre più ogni attimo che passa.
I miei occhi fanno più fatica ad abituarsi al bagliore, ma non è così insopportabile. La pelle quasi mi scotta ma oltre che darmi fastidio non provoca altri danni considerevoli. Apprezzo di gran lunga l’oscurità ma nonostante ciò raggiungo la locanda della prima notte in pieno giorno senza riportare ustioni o ferite. Vado nel vialetto sul quale si affaccia la finestra della mia stanza e con un balzo arrivo al secondo piano, entro nella stanza e chiusa la finestra riposo qualche ora.

Mi sveglio assetato, la gola secca ed un estremo bisogno di bere. Decido perciò di uscire dalla mia stanza e dirigermi al piano di sotto dopo aver spostato l’armadio, che faceva da muro all’entrata, con estrema facilità.
Al piano di sotto la luce diurna pervade maggiormente l’ambiente e stavolta gli occhi faticano ad abituarsi, la pelle mi scotta.
L’oste mi guarda torvo ma non mi rivolge parola e io senza prestarci attenzione prendo dell’acqua e inizio a bere.
Dopo numerose bottiglie la sete non da segno di placarsi, mentre il fastidio per la luce aumenta sempre più.
Non so cosa fare, sto sempre peggio: la gola secca e la pelle mi arde. Un’idea mi fulmina.
In fondo sono un vampiro ora.
Mi avvicino all’oste con noncuranza e appena distoglie lo sguardo mi avvento su di lui spezzandogli il collo con le mani senza imporre una gran forza, dopo di che lo mordo dove passa la giugulare. Il sangue dell’individuo ha un sapore stranissimo, ma eccelso. Mai provato un piacere tanto immenso. La sete viene subito placata e anche il fastidio per la luce svanisce.
Ho capito cosa accade. Man mano che la sete di sangue aumenta la mia debolezza aumenta, mentre se mi nutro questo non avviene.

Proprio mentre mi sto rialzando dal cadavere dissanguato dell’oste il figlio entra nella stanza e mi vede. Inizia ad urlare chiamando aiuto. Un attimo dopo il corpo giace a terra privo di vita e io ne sto bevendo il sangue.
Nel giro di una mezz’ora dissanguo l’intera famiglia e decido di partire.




La mia esistenza è cambiata sostanzialmente ma non mi dispiace.
Il mio peregrinaggio eterno continuerà fino al giorno dell’ultima alba.


Tratto dal diario di Nardu, che fu abbandonato pochi giorni dopo l’ultima pagina qui narrata, in una biblioteca di una grande città.
 
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