[D&D - Ricordi dal Passato] Ombre del Crepuscolo

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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:29




Giorno ventinovesimo del Secondo mese. Anno Centouno.

Tempio segreto di Wee Jas, piana di Desolazione, notte fonda.
Il vento era calmo eppure l’aria sembrava come viva. Il silenzio regnava sovrano nonostante, data l’ora, le celebrazioni dovessero essere in pieno svolgimento.

Una figura china, con passo lento e aiuta dal suo bastone, aveva appena varcato la soglia dell’edificio quando d’improvviso s’arrestò. La sala principale che di notte gremiva di accoliti e torce era completamente vuota e avvolta dall’oscurità.
Un sussurro grave ruppe il silenzio e il bastone s’illuminò di una fiamma rubino che con flebile energia scacciava le ombre.
Il chino individuo riprese ad avanzare più lentamente di prima, probabilmente acuendo i sensi, in cerca di risposte nel silenzio tornato forte e opprimente.

La porta che separava l’anticamera dalla sala dell’altare giaceva socchiusa. Una mano gracile ma decisa si posò sul legno vecchio e freddo sospingendolo. Un acido stridio trafisse l’aria e un più pesante cigolio accompagnò la porta fin in fondo alla sua corsa.
La sala dell’altare, per quanto il bastone permetteva di scorgere, si presentava deserta.

Drazius, più incuriosito che spaventato, proseguì nella sua indagine camminando diritto.
Raggiunse l’altare e notò che vi erano tracce di sangue ormai scuro, probabilmente appartenente alle vittime sacrificali. Più in alto però lo sguardo si posò su altre macchie purpuree: sangue sparso di recente.
Il passo del vecchio divenne più rapido, al limite concessogli dagli arti degradati, permettendogli di giungere sulla sommità marmorea color cremisi. Oltre l’altare giacevano un gruppo di cadaveri trucidati da meno di un giorno: portavano tuniche nere decorate con pugnali insanguinati, simbolo di Wee Jas. Erano i chierici della Dea.

Il silenzio si ruppe, sostituito da una melodia lontana eppure facilmente distinguibile. Le note, lente e forti, trasmettevano sull’ascoltatore una sensazione di paura e smarrimento, mentre la melodia finemente disegnata portava alla deriva ogni pensiero umano. Il canto di un flauto, diverso da quelli tradizionali, suggeriva nella mente di Drazius l’immagine di infiniti serpenti che si disperdevano a perdita d’occhio, danzando e cantando.

L’anziano elfo, dopo una prima fase di smarrimento, si riebbe. Voltandosi su sé stesso diede le spalle alla pila di cadaveri e alzò il bastone nell’oscurità. L’occhio catturò per un frangente un’ombra in movimento, frutto forse d’immaginazione o di un brutto scherzo della luce tremolante.
Ma come si è soliti dire, l’età è saggezza.
Poche parole recitate nella lingua della magia e un gruppo di fiamme spavalde presero vita a mezz’aria, sparse per la stanza dell’altare.

Dinnanzi agli occhi increduli dell’incantatore stava ritto in piedi, al centro della stanza e colto palesemente in fragrante, un individuo coperto da mantello e cappuccio neri. Solo la sua lama rubino luccicava investita dal bagliore delle torce.
Non vi fu il tempo per le domande: immediatamente il nuovo arrivato (o per dire il vero, il primo arrivato) si lanciò in una carica silenziosa e rapidissima.

Non vi sarebbero state speranze per Drazius se al suo posto vi fosse stato un normale chierico nel suo stato d’età, ma egli ringrazia ogni giorno la prontezza dei suoi riflessi e la freddezza del suo animo, che ancora una volta lo salvarono.
“Aules Vodkara Dak!”
Una mano fatta come d’aria, grande quanto l’elfo e avvolta da un alone di ghiaccio si chiuse a pugno e scattò in avanti, investendo l’assassino, che però scartò di lato con una capriola e riprese a correre. Ormai la distanza era minima.

La mente calcolatrice del vecchio aveva previsto in precedenza un tale esito del primo incantesimo, perciò senza attendere un istante aveva agitato rapidamente le mani e pronunciato le parole di potere: una sostanza vischiosa e verde avvolse fino al collo l’individuo armato di daga, appena scappato dalla fredda morsa della morte, immobilizzandolo.

Un ghigno si disegnò sul volto di Drazius. Con tutta calma poggiò il bastone al suolo e richiamando il potere racchiuso nel proprio sapere si fece avvolgere da un’aura scura. Diverse frecce piumate, nere come la pece, si materializzarono sospese nell’aria pronte ad essere scagliate sul bersaglio inerme.

“Non un’altra parola, vecchio.”
Una fredda lama, nascosta alla vista di Drazius, poggiava sul suo collo indifeso.
Una serie di immagini fulminarono nella sua mente: vi era silenzio, prima la musica lo aveva tentato, la sua preda non aveva un flauto, era stato raggirato come uno sciocco dai due assassini.
I dardi neri caddero al suolo, le ragnatele magiche si sfaldarono. Una risata tetra scosse il tempio di Wee Jas nel cuore della notte.
 
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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:32




Giorno terzo del Terzo mese. Anno Centouno.

Accampamento dei fedeli di Pelor, piana di Desolazione, alba.
“Vecchio abbiamo eliminato tutti questi maledetti chierici dell’Ordine della Luce che tentano di liberare il mondo dall’ombra degli Dei Malvagi?” Chiese una voce gioviale con tono ironico.
“Vuoi smetterla di chiamarmi a quel modo? Comunque questi erano gli ultimi, per quel che ne so.” Rispose con una controllata ira una voce molto più anziana e roca.
“No, mi piace vecchio. E poi devi a me il fatto d’esser ancora vivo. Avrei potuto ucciderti l’altra notte!” Rise la prima voce.
“Uccidermi? Tu?” L’ira dell’anziano era ormai funesta. “Se non fosse stato per tuo fratello tu saresti morto!”
“Era tutto calcolato, vero Nardu?” Ribatté il giovane.
“Smettetela voi due. Siamo stati fortunati di esserci chiariti prima di ucciderci a vicenda: eravamo là per lo stesso scopo e ci stavamo facendo guerra. Siamo stati degli sciocchi!” Intervenne una terza voce.
“Tuo fratello ha ragione Durlach!” Assentì il vecchio Drazius. “E smettila di torturare le mie orecchie con questi riferimenti burleschi alla mia età.”
“D’accordo, d’accordo. Anche se ho capito solo metà delle cose che hai detto, non farò più nulla che ti possa dar fastidio apertamente. Vecchio ...” Ribadì Durlach.
Nardu si mosse in direzione dell’elfo armato di bastone, che tentava inutilmente di opprimere il desiderio di lanciare una incantesimo sul giovane assassino, e gli mise una mano sulla spalla.
“Dai Drazius, sopporta qualche battutina. Siamo giovani e dobbiamo goderci questi anni, non credi? E poi ormai siamo compagni di ventura ...” e con un sorriso concluse “... vecchio mio.”
 
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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:34




Giorno quindicesimo dell’Ottavo mese. Anno Centotre.

Costruzione abbandonata, cuore della foresta di Chalons, primo pomeriggio.
L’edificio era spartano anche se di dimensioni ben al di sopra della media. Nonostante si trovasse completamente immerso nella foresta e le piante avessero ormai avvolto quanto si presentava allo loro portata, le pareti della costruzione rimanevano immacolate.
Non vi erano fessure o strati di calce che suggerissero l’unione di diversi pezzi di roccia, come se l’intero complesso fosse stato realizzando scolpendo un unico blocco di materiale grezzo dalle dimensioni a dir poco incredibili.
Pochissimi raggi di sole filtravano dalla volta verde degli alberi alti quanto una montagna e il manto erboso sembrava colto e curato come se un giardiniere invisibile dedicasse diverse ore per giorno ad ogni cespuglio.

A parte i rumori tipici di una foresta avvolta nella pace e tranquillità del primo pomeriggio null’altro turbava la quiete, quand’ecco dei passi particolari.
Il suono di calzari metallici battuti sulla roccia delle scale scandiva ritmicamente il silenzio, in disaccordo a quel fastidioso obbligo ad incresparsi.
Ad ogni lento, fiero e soppesato passo una figura s’innalzava in direzione dell’ingresso del tempio, a capo levato. Vi era ammirazione e devozione nei gesti dell’individuo che temeva di chieder troppo nel trovarsi in un luogo di tale rigore.
L’armatura, consunta dalle lotte e dalle intemperie, rifletteva ogni coraggioso raggio di sole che osava raggiungerla, proteggendo un corpo robusto ma gentile.

Il paladino varcò la soglia del luogo di culto provando emozioni tanto forti da far sì che le lacrime gli inumidissero gli occhi.
L’anticamera del tempio era larga e illuminata da feritoie lungo le pareti e torce, alimentate da una fiamma inestinguibile, inserite in nicchie nella roccia. Sul pavimento vi erano iscrizioni color miele che narravano, in lingua Celestiale, della costruzione e benedizione del sito.
Sul fondo della stanza vi erano due porte che conducevano alle sale successive, mentre al centro si presentava una spada fatta di roccia, poggiata sul pavimento con la punta rivolta verso il basso e in equilibrio come per miracolo, decorata nell’elsa di diamanti e nella lama con oro bianco.

Il guerriero sacro varcò una delle due soglie e raggiunse la stanza adiacente. Nell’osservare la scena rimase a bocca spalancata. Dalle pareti, senza nessuna apparente origine, cascate continue di un liquido color latte e denso mescolato ad un altro color oro e brillante come una torcia, cadevano al suolo imboccandosi in una serie di scanalature sparse per l’intera sala.
L’unione di Radiosità Angelica e Lacrime di Tempesta andavano a riempire un intricato simbolo divino circondato dalle parole di un incantesimi di congedo e bando per gli esseri malvagi.
L’uomo in armatura, evitando accuratamente di calpestare i canali del liquido sacro, attraversò anche la seconda stanza.

La stanza successiva era senz’altro la stanza più importante per ogni pellegrino: la statua di Raziel vegliava su coloro che qui si presentavano al suo cospetto.
Vi erano diverse porte laterali che conducevano negli altri ambienti del complesso edificio e delle porte sul fondo che avrebbero dovuto portare ai sotterranei. Lungo ogni parete, pavimento e soffitto, vi erano iscritti, con polvere azzurra indelebile in ogni lingua del Paradiso, canti di gloria per i giusti, di conforto per i deboli, di perdono per i pentiti e di odio verso i malvagi.
Il paladino, come spinto da una forza invisibile, mosse dei passi rapidi e scomposti in verso il suo Signore, quando improvvisamente s’arrestò. Ai piedi della statua vi era un’altra statua più piccola raffigurante un glorioso eroe del passato dai cui occhi sgorgava del sangue vivido e purpureo. Il liquido denso cadeva raccolto in una coppa fatta d’oro e avorio poggiata su un piedistallo in marmo completamente bianco e opaco.
Appena sotto all’altare vi era una piccola serie di gradini e sul basso di essi, in ginocchio, un uomo piangeva sommessamente. Solo ora il paladino s’accorse che lo sguardo infuocato di Raziel era posato su quell’uomo.

“Lo abbiamo trovato. Ormai non ci speravo più.” Disse Drazius con un tono liberatorio.
“Ma cosa facciamo in questo posto, vecchio? Io non ci trovo nulla d’interessante.” Chiese svogliatamente Durlach.
“Questo è l’antico tempio perduto di Raziel, il Crociato, signore del quinto strato di Celestia. E’ da secoli che la sua locazione è stata dimenticata e nessuno si reca più qui, o per lo meno in via ufficiale.” Spiegò l’incantatore con la sua solita aria di superiorità dovuta alla larga conoscenza.
“Ma non hai risposto alla mia domanda ...” Sbuffò il suo interlocutore.
“Siamo qui per depredarlo, Duralch. Lui vuole qualche strano coso divino, affari da chierici, e la cosa non c’interessa manco particolarmente. Tutto il resto è nostro. Vedrai che banchetto che ci organizziamo appena torniamo a casa con quello che racimoliamo.” Rispose Nardu.
“Ora capisco ...” Annuì il fratello.

“In nome del Crociato, mio signore, vi ordino di allontanarvi dall’altare!” Urlò il paladino con la spada sguainata in pugno.
La figura, fino ad un attimo prima china, obbediente s’alzò e voltandosi mostrò un volto d’elfo decorato con occhi di ghiaccio e capelli biondo cenere.
“Perché mi punti quest’arma addosso? Non ho forse anch’io il diritto d’esser al cospetto dello sguardo di Raziel?” Chiese lo strano elfo.
“Percepisco il male in voi, creatura demoniaca, e il vostro costume me lo conferma. Chi siete e perché siete qui?” Scandì con giusta collera il portavoce della giustizia.
Il demone si guardò l’armatura, composta da ossa, come per cercare una spiegazione alle parole del suo interlocutore e poi con sguardo grave e tenebroso disse “E quindi è per me impossibile trovare redenzione?”

“Sei uno sciocco se cerchi il perdono presso Raziel, il più propenso alla distruzione dei malvagi e non alla loro redenzione!” Giunse come monito dal fondo della stanza.
Il paladino si voltò giusto in tempo per osservare un giovane elfo che colpiva con violenza il costato di uno molto più anziano.
“L’età ti ha corroso il cervello, vecchio?! Avremmo potuto ucciderli ancor prima che si accorgessero di non esser soli!” Giunse come sussurro alle orecchie di colui più avanti negli anni.

Il paladino, tenendo la spada puntata verso l’individuo corazzato d’ossa, protese l’altra in direzione dei nuovi arrivati e intonò una litania. Tra le tante parole biascicate si udì distintamente il nome della divinità a cui era dedicato l’intera struttura. Passarono pochi secondi a seguito dei quali vi fu il verdetto “Percepisco il male anche in voi, chi siete? Perché siete in questo luogo sacro?”
I tre elfi si guardarono perplessi e fu Nardu a salvare la situazione con un’immensa elasticità mentale “Noi non conosciamo quel mezzo demone, mio signore. Siamo dei pellegrini che vagano per le terre di Bretonnia in cerca di misericordia. Come avete notato sul nostro passato vi sono macchie dovute a orribili peccati, gesta di cui ci pentiamo. Siamo finiti qui per caso, non sapendo dell’esistenza di un tempio dedicato a Raziel. Speravamo solo di trovare un altro luogo di preghiera ed espiazione.”

La menzogna sembrò avere successo.
“E io come loro mi vergogno delle mie origini. Sono venuto presso Raziel a chieder una seconda possibilità, ben sapendo che egli con difficoltà ne concede a quelli della mia risma ...” quivi lanciò un’occhiataccia in direzione di Drazius “... ma pensando che se fossi riuscito a convincer questo nobile Signore che le mie ragioni sono sincere, avrei potuto affrontare qualsiasi penitenza a cuor leggero.” Spiegò il primo arrivato.

Il paladino ostentò uno sguardo duro e distaccato, ma in cuor suo meditò e chiese consiglio alla sua incrollabile fede. Abbassò l’arma.
“Ammettere i propri peccati è il primo passo verso una vita più giusta. Vi aiuterò io nel vostro cammino di redenzione e sarò la vostra guida morale e spirituale, se la cosa vi aggrada. Il mio nome è Mek, paladino dei giusti.”
“Io sono Lelild e sarò onorato di poter intraprendere, sotto la vostra guida, un cammino diverso da quello imboccatomi alla nascita. “ Disse lo strano individuo chinando il capo e ringraziando sommessamente Raziel.

Di lì a poche ore i cinque assortiti individui abbandonarono il tempio: due di essi particolarmente soddisfatti, altri due disperatamente abbattuti e uno non del tutto scontento.
“Sono felice di avere anche un paladino e una sorta di elfo unica al mondo in gruppo con noi ...” Sussurrò Nardu a poca distanza dal fratello, con tono particolarmente sarcastico “... ma avrei gradito anche poter mettere in tasca qualche sacra ricchezza, oltre che solo pii consigli.”
“Il banchetto comunque questa sera non mancherà, fratellino mio.” Rispose Durlach con un sorriso, mostrando una coppa in oro e avorio, ancora sporca di sangue, nascosta sotto le vesti.
 
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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:36




Giorno ventiduesimo del Quarto mese. Anno Centocinque.

Arena, città di Parravon, tardo pomeriggio.
Un vento caldo sferzava la città-fortezza e nonostante il sole iniziasse a calare ad occidente il caldo era pressoché insopportabile.
Nardu, Durlach, Lelild e Drazius raggiunsero l’arena della città nel mezzo del loro vagabondare per puro caso, attratti da un consistente fluire di gente in quella direzione.

“Dov’è finito il paladino?” Chiese Durlach.
“Mi pare sia andato all’ospedale a dare una mano ai chierici. Ha blaterato qualcosa riguardante Raziel, ma non gli ho dato troppo ascolto.” Rispose Drazius.
“Quell’uomo è incorreggibile.” Commentò Nardu.
Lelild stava per dir la sua, ma si trattenne: aveva ormai ben capito, dopo due anni, che i suoi tre compagni non aveva alcuna intenzione di cercare redenzione, ma non gl’importava dato che essi si erano dimostrati degli avventurieri fidati e utili. Solo il paladino continuava a credere alla loro vecchia versione, spinto da una cieca fede e da uno spirito di sacrificio e conversione ineguagliabili.

Un boato della folla e grida d’esultanza giunsero dall’edificio circolare in roccia e legno. Fino ad un attimo prima lo sferragliare del metallo che cozza dominava la scena, conclusasi in urla di dolore.
“Guerrieri di ogni terra e di ogni stirpe! Nessuno tra voi è tanto audace da sfidare il nostro odierno campione dell’Arena? E’ da questa mattina che lotta senza sosta, sconfiggendo ogni avversario. Approfittate della sua stanchezza, avete poco tempo prima che il sole si nasconda del tutto all’orizzonte. Strappate il titolo di campione ad Eronor!”

I quattro compagni entrarono, prendendo posto sugli spalti dell’arena, incuriositi. Al centro del cerchio di sabbia, ormai imbrattato di sangue in più punti, vi era un uomo alto e fiero. Tra le mani, mantide di sudore, stringeva un lungo spadone, poggiato con la punta al suolo. I lunghi capelli d’orati ricadevano sulla barba raccolta in trecce. L’armatura di ottima fattura presentava ormai i segni della lotta prolungata, come il viso tirato del combattente, che però restava ritto in piedi e con la mascella contratta in segno di sfida.
L’eroe dell’arena lasciò con una mano la propria arma per portarla al collo ed afferrare un corno, appeso ad una catena; portato lo strumento alla bocca vi diede fiato. Un grido di battaglia riecheggiò tra la gente.
“Nessuno osa combattere contro di me?”

“Lelild, sfidalo.”
“Cosa? Tu sei matto!”
“Fidati di me.” Lo rassicurò Nardu strizzando l’occhio.
L’elfo aveva in mente qualcosa, che subito condivise con Drazius, sussurrandogli parole concise all’orecchio e fece un cenno del capo al fratello.

“Combattenti, guerrieri e gladiatori! Vi sono quindicimila monete d’oro in palio. Fatevi avanti!”
Lo speaker tentava in ogni modo di prolungare le sfide per poter occupare fino al tramonto completo l’arena, in modo anche da raccogliere più introiti possibili dalle scommesse. Quand’ecco che un inaspettato evento rincuorò l’uomo.
Una coppia di elfi balzarono nel mezzo dell’arena, dopodiché si diressero su due pali di legno lungo in bordo e vi salirono con agile passo. Uno di essi estrasse un flauto traverso ed iniziò a dar fiato ad una melodia ricca di suspense.
L’altro prese a dire “Signori e signore. Guerrieri e temerari di ogni dove. Direttamente dalle terre più esterne dell’Impero, ai confini con le lande del Caos, ecco a voi Lord Lelild! L’imperituro combattente. L’indomabile sterminatore. L’imbattuto signore della armi! Egli è qui giunto per strappare il titolo di campione anche in questa arena e aggiungerlo alla sua collezione.”

Lelild vide la folla cercare con gli occhi questo guerriero formidabile e si vergognò di una presentazione tanto ricca e colorita. Poi Drazius gli pose una mano sulla spalla e gli disse “Vai ...”
Subito l’elfo dalla stirpe unica si sentì dominato da un’energia mai avuta prima. Si fece coraggio e saltò nell’arena.
La musica del flauto cambiò e divenne un inno alla forza degli elfi e una condanna alla caducità degli uomini. Il coraggio gonfiò il petto dell’elfo che estrasse la propria alabarda con fare di sfida.
“Appassionati spettatori, scommettete! Riuscirà il nostro campione Eronor, orgoglio degli uomini a battere Lelild, terrore elfico?”

Non vi fu un segnale d’avvio o un ordine. I due guerrieri si caricarono all’unisono spinti dalla foga del momento e dalle urla della gente che spendeva i propri soldi puntando sull’uno e sull’altro contendente.
Lo spadone di Eronor calò con potenza sulla spalla dell’avversario infrangendosi sull’armatura d’ossa che però non sembrò accusare alcun danno. In contemporanea l’alabarda con punta di katana si lanciò in un affondo preciso ed efficace: il sangue iniziò a sgorgare dal fianco lacerato dell’uomo.
Nonostante il danno non vi fu alcuna reazione remissiva da parte del guerriero che con una mano afferrò il bastone elfico, immobilizzandolo, e con l’altra sollevò all’aria lo spadone iniziando a menar fendenti senza interruzioni.
Poco dopo spalle e cranio del mezz’elfo sanguinavano copiosamente, ma questi con un calcio era riuscito a rimpossessarsi della propria arma.

Il combattimento infuriava e la gente urlava eccitata.
Improvvisamente però l’arena divenne completamente buia. Ci fu un attimo di sgomento subito sostituito da panico e infine rabbia. La gente iniziò a chiedersi cosa fosse accaduto sul campo.
Lelild si guardò intorno attonito. Che diavoleria era quella? Il suo avversario non aveva lanciato nessun incantesimo, ne era sicuro. Una mano prese a battersi sulla spalla, ma prima che l’elfo potesse attaccare una voce famigliare gli ordinò di fermarsi.
“Sono Nardu, seguimi.”

I due raggiunsero le sale dove i gladiatori si preparano prima di entrare in campo e la tenebra venne meno. Trovarono Durlach ad attenderli.
“Missione compiuta! Filiamo!”
Lelild non ebbe il tempo di far domande e sul volto gli si disegnò un’espressione interrogativa, ma poi passi pesanti accompagnati dallo strisciare del metallo sulla roccia.
I tre si voltarono all’unisono e trovarono Eronor, che a tentoni aveva abbandonato l’area dei combattimenti ancora occultata alla luce.
“Cosa state facendo? E’ opera vostra?” Chiese con aria guardinga.
“Taci e seguici! Avrai il tuo compenso.” Rispose in fretta Nardu.

I quattro si ricongiunsero all’esterno con Drazius e si diedero ad una composta fuga.
Avevano preso sia il premio di quindicimila monete, che le scommesse depositate al tabacchino e addirittura avevano allestito un giro di scommesse fasulle sottobanco per gli appassionati più accaniti.
“Prendi umano, ti servirà per rimettere in sesto l’armatura, più un qualcosa per il tuo silenzio.” Disse Durlach porgendo e un sacchetto di monete e un occhiolino.
“Sarei felice di venire con voi. Il denaro non mi dispiace e nuovi compagni d’arme o avversari che siano sono il mio pane quotidiano.” Grugnì Eronor.
Così al gruppo un altro possente guerriero andò ad aggiungersi.
 
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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:37




Giorno ventiduesimo del Quarto mese. Anno Centocinque.

Piazza, città di Parravon, un’ora a mezzanotte.
“Possibile che non vi sia una locanda che rimanga aperta tutta notte in questa città? Capisco che è un territorio di guerra e la gente rispetta delle leggi particolarmente marziali, ma i soldati dovranno pur svagarsi in qualche modo!” Sbuffava Durlach spazientito dal continuo spostarsi da un locale all’altro.
“Io propongo di cercare un bel bordello dove investire i soldi guadagnati oggi all’arena.” Annunciò il fratello.

I due, stretti nei propri mantelli, stavano camminando per le vie ormai deserte. Poche ronde cittadine, dagli sguardi distratti e assonnati, passavano di tanto in tanto per le vie principali, senza curarsi di ciò che le circondava.
Ad un tratto Nardu si fermò: di fianco alla bacheca degli annunci stava una spada conficcata nel terreno con una pergamena attaccata all’elsa.

Nella notte io cerco vendetta,
ad ogni assassino, sicario ed esperto di morte
io chiedo consiglio.
Attenderò fino alle prime luci dell’alba.
Dirigiti due vie più ad Est della piazza, al primo svincolo sulla sinistra.
Che la lama più silenziosa e letale possa venirmi in aiuto.
Prometto oro e gemme preziose.
Il Generale.

La piccola rotonda, due vie più ad Est della piazza, si presentava deserta e silenziosa. Solo la luce lunare illuminava la zona.
Una persona, avvolta in un manto nero lungo fino a toccar terra e vestita d’abiti come fatti d’ombra palpabile, avanzava con passo lento e sicuro verso il centro. In mano portava una daga nera e rubino e sul volto una mezza maschera rosso sangue, ricamata con un serpente intorno alla cavità per l’occhio.
Dopo pochi minuti questi si fermò esattamente al centro ed iniziò a guardarsi intorno.
Un nube coprì la luna, occultandola.

Da antri nascosti cinque ombre si lanciarono sul nuovo arrivato con le armi in pugno, rapide e silenziose come la morte stessa, evidentemente intenzionate ad uccidere.
Raggiunsero la preda, che non mosse un muscolo, in un batter d’occhio.
L’aggressore più vicino, un attimo prima di sferrare l’attacco, cadde a terra senza un lamento.
Subito dopo la stessa sorte colpì il secondo, il terzo e il quarto.
Il quinto, con un cambio improvviso di marcia, balzò all’indietro compiendo una capriola. Ma anch’egli cadde in ginocchio, portandosi le mani alla gola, per poi crollare al suolo.

La figura al centro della piazza continuò ad ostentare il proprio modo di fare incurante del mondo circostante.
La signora dei celi notturni si scostò dall’abbraccio tenebroso di un attimo primo tornado a rischiarare la piccola piazza.
Cinque frecce nere, ora lievemente visibili, spuntavano dai cinque corpi distesi a terra.
Una dozzina di assassini, avvolti nei loro abiti di diversi colori, si parò davanti al nuovo arrivato.

Vi fu un momento in cui tredici paia di occhi si scrutarono intensamente. Poi all’unisono tutti assunsero una posizione di guardia.
Il primo a scattare in avanti fu un uomo dalla pelle nera e gli occhi bianchi, coperto da semplici stoffe aderenti lungo busto e gambe.
Nella mano stringeva una strana arma a doppia lama, poco più grande di una coppia di pugnali, e l’utilizzò per tentare di stroncare la vita all’avversario. Questi con un movimento fluido scartò di lato e conficcò la propria arma dietro la nuca dell’uomo ormai morto.

Altri due si gettarono in avanti imbracciando due spade a lama ricurva cadauno, roteate a gran velocità, ma si fermarono a meno di un metro di distanza dall’assassino con i petti trafitti da un pugnale ciascuno.
Le armi assassine tornarono indietro in direzione del proprietario, scavalcando la prima Ombra e raggiungendo il fratello, dietro le sue spalle.

Gli ultimi nove avanzarono uniti, attuando tecniche differenti d’omicidio, che furono tutte sconfitte con facilità della sincronia dei due fratelli.
Le daghe gemelle saettavano da un bersaglio all’altro come in una danza, colpendo sempre secondo una tattica precisa.
I combattimenti terminarono dopo meno di un paio di minuti: solo i due fratelli restavano in piedi, incolumi.

Un applauso lento e solitario accompagnava l’avanzata di passi lenti.
Nardu e Durlach l’osservarono.
Indossava un’armatura bianca e rossa di fattura finissima e decisamente di gran valore, oltre che di grande robustezza. Dietro alle spalle s’intravedevano due else di spade probabilmente molto potenti. Insomma si trattava di un vero generale in carriera, dall’aspetto minaccioso, suggerito soprattutto da uno sguardo di fiamma.

“Siete gli unici sopravvissuti e quindi è con voi che devo parlare. Desidero uccidere un uomo ...” Prese a raccontare con voce possente, colui che si presentò con il nome di Revan, narrando della propria sventura.
“Uccidere il sovrano di ................ non sarà facile. Ho già assoldato altri sicari che hanno fallito. Sir Veeminard si è ben preparato anche da questo punto di vista, perciò ho deciso di entrare in azione personalmente. Voi mi aiuterete con le vostri straordinarie doti e io vi accompagnerò.” Concluse il generale.
“Il nostro compenso sarà alto.” Sottolineò uno dei due fratelli.
“Come sovrano dovrebbe essere molto ricco. Potrete prendere tutto ciò che desiderate.” Fu la risposta.
“Innanzitutto sarà il caso di lasciar passare un po’ di tempo, per calmare le acque e dare l’impressione al re di essere al sicuro. Fargli pensare che i suo aggressori abbiano gettato la spugna. Nel frattempo raccoglieremo ogni informazione che potrà esserci d’aiuto.” Spiegò l’assassino.
“E così sia ...” Annuì Revan.
 
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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:39




Giorno primo del Quinto mese. Anno Centosette.

La Miniera D’Oro, città di Bordeleaux, notte fonda.
Il sole era calato da diverse ore e la gente si era ormai ritirata nella propria dimora. O meglio, la brava gente s’era ritirata nella propria dimora, mentre tant’altra gente di costumi un po’ meno morali, s’era rintanata in bordelli e locande a bere e festeggiare.

“Oste, un bel boccale di birra schiumante per tutta la locanda! Festeggiate con me, luridi ubriaconi!” Urlava, tra risa e canti della sua tavolata, l’uomo, causa di tutta quell’ilarità, decisamente poco sobrio.
E anche se quell’energica generosità fosse stata palesemente dettata dall’alcol ingerito in eccesso, il proprietario dietro al bancone iniziò a versare litri e litri del dorato liquido, pronto ad incassare a braccia aperte il corrispettivo compenso.
“Non pensate sia il caso di offrire del vino, per coloro che detengono un ritegno maggiore del vostro?” Urlò una voce pesata.

L’uomo grosso quanto ubriaco, con spalle possenti e uno sguardo che suggeriva nulla di buono si volse particolarmente infastidito nella direzione della voce.
Un giovane dai lineamenti gentili, tipici della razza elfica, con pelle particolarmente grigia e uno sguardo verde, intenso come le foreste più antiche di questo mondo e carico di sfida, stava in piedi di fianco ad un tavolo ove sedeva un suo simile. Alla tavola dei due elfi diverse bottiglie di vino e sidro giacevano ormai vuote.

Il beone s’alzò in piedi con foga e dovette pentirsene l’attimo dopo dato che lo sbalzo improvviso lo portò barcollando ad appoggiarsi alla parete più vicina per rimettere l’abbandonante cena. Ma nonostante l’inizio poco gradevole, gli incitamenti provenienti dal gruppo di amici, altrettanto pieni, convinsero l’uomo portarsi fino al tavolo degli elfi. Tra il giovane in piedi e l’ubriaco vi era solo una piccola tavola di distacco.

“Cos’hai da guardare, elfo? La mia generosità non è per quelli della tua razza!” Ruggì il goffo individuo producendo un’alitata poco piacevole, che si sparse velocemente nei dintorni.
“Osservo la vostra brutta immagine accompagnata da un olezzo degno delle peggiori stalle, ma a catturare la mia intenzione è soprattutto il vostro pessimo gusto nello scegliere le bevande, umano.” Rispose con tono pacato il piccolo elfo accompagnato da un ghigno divertito del compagno, ancora comodamente seduto.
L’uomo rimase un attimo interdetto, non sicuro di aver capito ogni parola, ma non ci mise poi così tanto a dedurre che di certo il senso delle frasi non era un elogio alla sua immagine. Preso dalla rabbia afferrò il piccolo tavolo e lo scaraventò a terra.

L’elfo che fino ad un attimo prima era rimasto estraneo agli eventi, come un divertito spettatore munito di vino rosso, si destò. Un calcio ben assestato colpì con fragore il cranio dell’ubriacone che rovinò a terra.
“Ora mi toccherà cambiare tavolo e questo mi da particolarmente fastidio.” Diede come spiegazione Durlach. Nardu lo fissò divertito.

Passarono una manciata di secondi in cui tutti rimasero fermi ed in silenzio, come in attesa, indecisi su quale azione intraprendere.
L’intera tavolata degli amici dell’uomo ormai inerme s’alzò all’unisono tra grida e schiamazzi: volevano vendetta per l’affronto subito, anche se la maggior parte di essi non aveva la più pallida idea di cosa fosse accaduto a causa dei brutti scherzi provocati dall’alcol.
In aggiunta a questi gladiatori da strada, in preda alla rabbia, gli elfi guadagnarono anche l’odio della gran parte dei restanti clienti della locanda, che dopo la violenta scomparsa del generoso ubriacone temevano di aver perso ogni diritto ad un boccale di birra gratuito.

I due fratelli si misero in guardia e la carica dei nemici più agguerriti fu immediata. L’impatto era ormai imminente, quando dal nulla una tavolata lunga diversi metri si frappose tra la marmaglia in corsa e i loro obbiettivi.
Pochi furono in grado di arrestare la corsa e la maggior parte andarono a cozzare con il proprio muso contro lo spesso legno.
Ma ciò non placò la giustizia del grande tavolo che, come animato da vita propria, iniziò una rapida avanzata verso i superstiti che terminò cozzando contro la parete in fondo al locale.
L’intera tavolata dei compagni dell’ubriacone era stesa al suolo, ricoperta di lividi e schegge di legno.

L’anima del grande tavolo altro non era che un ennesimo beone dagli abiti simili a quelli dei nobili samurai, ma dal portamento di gran lunga meno fiero.
Non particolarmente prestante fisicamente, nella media degli uomini, spiccava tra la folla per un cappello alla pescatore color nero, intonato con il kimono. Un sorriso indecifrabile armato di pipa, che fece scoppiare in risa Durlach, fu l’unico atto di rivendicazione della gloriosa opera compiuta.

“Quando si dice che l’alcol fa male. Forse è il caso che smetta di bere, fratello.” Boccheggiò Durlach osservando il loro pseudo salvatore.
“Per il pene di Pelor! Non dire sciocchezze: non smetteresti mai.” Rispose Nardu senza distogliere lo sguardo dall’uomo vestito di nero che non smetteva di sorridere a bocca spalancata.

L’impresa a dir poco eroica del grande tavolo, anche se all’inizio sembrò portare i risultati sperati, in realtà scatenò maggiormente la furia dei restanti clienti che in massa si gettarono sullo sventurato nuovo arrivato sulla scena.
Eppure il beone in kimono, senza smettere di sorridere, tracannò un intero boccale di birra, che aveva custodito nella mano fino a quel momento, e iniziò a sventolare al vento una scala a pioli lunga una decina di metri, comparsa come per magia da chissà quale angolo della locanda.

Piolo dopo piolo, la scala si abbatteva sugli sventurati che si tuffavano in una sacrificale carica, compreso l’oste che inutilmente tentò si salvare i propri possedimenti da quella furia, finendo a terra privo di sensi.
I due fratelli elfi, ormai ignorati da tutti, osservavano in disparte la scena allibiti e divertiti al contempo.
Dopo diversi minuti il maestro del dorato nettare lasciò cadere la propria arma: la scala si era ridotta a una quarantina di centimetri di lunghezza. Il sorriso dal volto del’uomo non era svanito, ma bensì era rimasto immutato, portando a dubitare della sanità mentale di quest’ultimo.

Durlach e Nardu si avvicinarono, scavalcando corpi ammucchiati e ciò che restava della Miniera D’Oro.
“Buona sera ragazzuoli!” Li accolse l’uomo con un alito degno del primo ubriacone e una barba tanto incolta da sembrare un campo di battaglia.
Nardu ingoiò una seria di cattivi commenti. “Ci ha di certo risparmiato qualche livido e un occhio nero, mio buon?”
“Zaraki. Zaraki Kenpachi!” Rispose l’uomo con uno sguardo improvvisamente serio.
“Mio buon Zaraki, che ne dite di andare in un’altra locanda? La notte è ancora giovane ed un brindisi in più in onore di Olidammara non nuoce mai.” Propose Durlach divertito.
“Sarebbe un’ottima idea.” Aggiunse Nardu “Così avrete occasione d’insegnarci a brandire le tavole con una tale maestria e noi vi faremo saggiare del buon vino e ... v’insegneremo l’arte del buon costume. Almeno spero.”

Kenpachi sorrise in gesto di assenso, mostrando interamente la propria dotazione di gialli denti, e alzò il pollice. Dopodiché si diresse al bancone e lo scavalcò sparendo alla vista per un attimo. Ne uscì con in mano una botte di birra.
“Questa è per il fastidio.” Spiegò Zaraki, ma perfino Durlach, solitamente affine a questi ragionamenti, non afferrò il collegamento logico.
I due elfi fecero spallucce e si diressero alla porta con il nuovo compagno.
 
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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:41




Giorno primo del Primo mese. Anno Centonove.

Taverna della Testa di Cervo, La Couronne, sera.
Quella sera poca gente si era ritirata alla taverna per consumare la cena. Un piccolo gruppo di avventurieri nani bevevano birra e cantavano allegramente ad una tavolata a destra dell’ingresso, mentre degli abitanti del luogo, divisi in gruppetti di massimo tre o quattro persone, costituivano quanto restava della clientela.
Pochi uomini al bancone ordinavano alcolici per scacciare la malinconia della serata ancora giovane.

In un angolo un elfo sedeva silenziosamente al fianco della sua arma. Con un lungo mantello da viaggio s’avvolgeva, come se volesse nascondere alla vista le proprie vesti. Non aveva ordinato nulla all’infuori di una brocca piena d’acqua calda.
Quando s’era presentato al bancone, alle ultime luci del pomeriggio, aveva chiesto di preparare un tavolo per otto persone e ora lui ne occupava un posto seduto in capo.

Mancavano pochi minuti alle nove quando la porta della locanda s’aprì, lasciando entrare una folata di vento gelido, tipico dell’inverno.
Due persone entrarono, stringendosi nei mantelli per proteggersi dal clima pungente, con passo incerto, come se cercassero qualcosa. Quando i loro sguardi si posarono sull’elfo nell’angolo l’additarono e si diressero da lui con passo spedito.
Il primo con i capelli biondi, levò il mantello e lo spadone, legandoli alla sedia, e prese posto di fianco all’amico. Il secondo invece, dai folti capelli rossi e di corporatura altrettanto robusta, poggiò le proprie spade di fianco a sé e si sedette a capotavola, dal lato opposto.

Erano passati pochi istanti quanto la porta della taverna venne di nuovo aperta e un individuo vestito interamente di nero mosse i propri passi verso l’interno. Non molto alto ed esile, mostrava bei lineamenti da elfo ma capelli e occhi particolarmente scuri, rari in quella razza.
Anche quest’ultimo, coprendosi nel proprio mantello prezioso, decorato d’argento, andò verso la tavola nell’angolo, ove cinque posti restavano liberi. Questi prese a sede e occupò anche la sedia al proprio fianco, come se la riservasse a qualcuno.

Le nove rintoccarono in lontananza, ma perfettamente udibili. Quando l’ululato della bufera invernale riprese il sopravvento la porta si spalancò sbattuta da parte.
Una mano avvolta in un guanto d’arme afferrò lo stipite della porta e trascinò all’interno il proprio padrone: un uomo dal viso dolce eppure severo, segnato dagli anni e dalle battaglie.
Questi posò il proprio sguardo bicromato sul gruppo di avventurieri seduti e vi si diresse con passo nobile, non prima di aver richiuso con cura la porta alle proprie spalle.

Giunsero le nove e mezza e alla tavola degli avventurieri si era aggiunto, oltre ai primi cinque, un uomo che stringeva con una mano un rosario di teschi e con l’altra un calice di birra. Dalla bocca una pipa fumante colorava di grigio l’ambiente.
Da quando era arrivato costui il clima al tavolo si era rilassato e i partecipanti alla cena avevano iniziato a parlare, bere e mangiare.
Ed ecco la porta aprirsi nuovamente.

Un altro elfo entrò rapidamente spinto dal vento e seguito da un anziano, conteso tra in una lotta tra bastone d’appoggio e vento la quale esito avrebbe determinato la sua caduta o meno.
Uno indossava un mantello identico a quello dell’elfo dai capelli scuri, mentre il secondo portava una tunica ricoperta da rune rubino.
Entrambi presero posto alla tavolata degli avventurieri occupando gli ultimi due posti.

Gli uomini presero a cenare e bere animatamente, chiacchierando di tutto e di nulla. Gli ultimi arrivati furono accusati di essere i soliti ritardatari, dato che l’appuntamento era stato organizzato per le nove, ma essi non se ne curarono particolarmente.
“Signori, è anni ormai che viaggiamo insieme e affrontiamo avventure d’ogni genere. Questa sera vi ho voluti riunire a cena per farvi una proposta ...” Prese la parola Nardu, ma fu interrotto dal fratello.
“L’idea gli è venuta quando, passeggiando per La Couronne, ha visto un annuncio che avvisava l’apertura delle iscrizioni delle nuove gilde e la possibilità di acquistare un lotto per edificare la propria sede.”
“Esattamente. Ormai non ci manca altro che un riconoscimento ufficiale, che ne pensate?” Concluse.

Tutti si pronunciarono più o meno d’accordo e la ore passarono veloci. Ad un certo punto si giunse ad un dilemma: che nome dare al nuovo gruppo?
Le discussioni sfociarono anche in grida feroci, spesso alimentate dall’alcol, ma alla fine si giunse ad una conclusione.
“Ombre del Crepuscolo!” Sussurrò Lelild in disparte.
Tutti lo guardarono sgomenti, senza pronunciar parole. Poi Zaraki s’alzò in piedi, barcollò e afferrandosi al tavolo alzò un calice di birra.
“Festeggiamo, Ombre del Crepuscolo!”
I rimanenti si guardarono un istante. “Per le Ombre del Crepuscolo!!!”

Il giorno dopo andarono agli uffici regi ad iscriversi ufficialmente all’albo delle gilde riconosciute. Ed un lotto di terra fu loro venduto, non lontano dalle mura cittadine e dalla via che porta all’uscita orientale
 
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Nardu
view post Posted on 12/7/2008, 15:47




Giorno decimo del Settimo mese. Anno Centotredici.

La Tana, La Couronne, Tramonto.
Le Ombre del Crepuscolo organizzarono una gran cena ove, alla tavola finemente imbandita, otto persone festeggiarono l’ultimarsi dei lavori, piene di soddisfazione e gioia. Dopo quattro lunghi anni d’incessante cura e dispendiose opere avevano terminato la loro casa, la loro Tana.

L’edificio sorgeva tra la via che porta ad oriente e le mura, in un quartiere di case discrete e botteghe di un certo livello: non era un quartiere nobiliare, ma la gente viveva bene. Nel quartiere poi vi era, e vi erano da sempre state, anche sedi di altre gilde cittadine e non era bizzarro trovare edifici particolari, adattati a particolari esigenze.

La Tana occupava un terreno abbastanza ampio. Davanti all’edificio una staccionata delimitava l’inizio di un giardino, arricchito con delle piante, attraversabile tramite un sentiero di ciottoli. Non vi erano alberi particolarmente grandi, fatta eccezione per due querce ai lati del cancelletto in legno, ma alcuni abbastanza robusti da sostenere un’amaca e il peso di un uomo.
Al fianco del cancello d’ingresso vi era un’insegna recante il titolo “Ombre del Crepuscolo” e l’invito a presentarsi a gran voce prima di suonare la campana posta lì di fianco.

La casa, non particolarmente lussuosa al vedersi, offriva al piano terra una sala d’ingresso particolarmente bella, ove in bacheche o appesi al muro, vi erano i trofei e le onorificenze ottenute dalla gilda; tra queste vi era anche la pergamena di riconoscimento firmata dal re e la statua, armata di spada, di uno degli antichi paladini guardiani del regno di Bretonnia e fedele servitore di Raziel, sir Reginald, famoso per audacia, coraggio e fermezza.
Sempre al piano terra si presentava una spaziosa sala da pranzo, occupata da una tavolata in cedro tonda con dodici posti, al cui centro sorgeva una piccola statua dedicata a Bacco, dalla cui brocca fuoriusciva a richiesta vino a volontà, affiancata ad un’attrezzatissima cucina e da un caminetto particolarmente ben disegnato. Al fianco della cucina vi era una dispensa incantata che conteneva ad ogni pasto il necessario per preparare un pasto all’intera tavolata.
Vi erano inoltre, sempre accessibili dalla sala d’ingresso, una piccola sala d’arme sulla destra, organizzata in modo da poter ospitare piccoli combattimenti, e una biblioteca sulla sinistra, con i libri ordinati in ordine alfabetico e con un Sigillo del Serpente imposto su ognuno, entrambe rifornite dai membri delle Ombre nel corso degli anni.

Tramite delle scale nella sala da pranzo era possibile raggiungere il piano superiore ove dieci camere da letto accoglievano i membri della gilda e gli eventuali ospiti.
Ogni membro aveva diritto alla propria stanza, delimitata con una porta in ebano ove, con scrittura elegante in oro e porpora, vi era indicato il nome del proprietario. Esse portavano una particolare maniglia, che se bloccata con il piccolo meccanismo, riconosceva il tatto del proprietario e ne impediva l’apertura da altri.
Le stanze delegate agli ospiti portavano la semplice scritta “Ospiti”, che però mutava quando qualcuno ne occupava il letto, assumendo il nome dell’ospite in questione.
In ogni stanza un armadio spazioso, un comodino, un piccolo caminetto e un comodo letto a due piazze erano il minimo; poi ogni membro della gilda aveva personalizzato e arredato la propria stanza.
Tramite una botola, munita di scala a scomparsa, posta al centro del corridoio che separava le camere da letto, si poteva accedere alla soffitta. Questa veniva utilizzata come magazzino per le cose meno utilizzate ed era caratterizzata dall’inspiegabile capacità di non riempirsi mai.
Drazius, che evidentemente sapeva più di altri, sorrideva sottobaffi ogniqualvolta un’altra Ombra sollevasse la questione.

Nel retro della dispensa vi era un piccolo sgabuzzino, nascosto da un velo, che solitamente rimaneva vuoto.
Solo i membri della gilda sapevano che la parete dello sgabuzzino, disegnata magicamente tramite un incanto Muro Illusorio, era attraversabile e permetteva di accedere alle scale per il sotterraneo.
Qui torce perenni illuminava il cammino raggiungendo le sale più remote dell’edificio.
Alcune stanze, attrezzate per scopi specifici erano arredate come occorreva, mentre altre restavano vuote e pronte ad utilizzi futuri. Nel complesso vi erano dieci ambienti.
Tra questi dieci ambienti quelli organizzati erano sei.

Un laboratorio d’alchimia con pareti immuni ad ogni tipo d’energia o fuoriuscita, sia essa liquida o gassosa, in modo da lasciare a coloro che volevano dilettarsi con esperimenti, ogni tipo di libertà.
Una cella, o stanza di detenzione, per oggetti o persone, provvista di un Campo Anti-Magia e di un a porta robusta in metallo, ben sigillabile con serrature particolari.
Vi era la Sala del Tesoro, come adorava chiamarla Durlach, che altro non era che una stanza in cui le Ombre depositavano quanto di prezioso avessero e non utilizzassero. Anch’essa era protetta da una spessa porta di metallo, chiusa da una serratura, che oltre ad essere difficile da scassinare era cosparsa di veleni, efficaci sia al tatto che all’inalazione, ed apribile dai membri con parola di comando, la stessa che disattivava il Simbolo di Morte, inciso sulla porta stessa.
Due aule erano dedicate ai templi di Wee Jas e Ner’zhul, in cui i fedeli potessero compiere i propri riti. A dire il vero non tutti sapeva dell’esistenza di questi due luoghi sacrileghi, che furono tenuti nascosti ai non adoratori per evitare discussioni teologiche inutili. Sulle porte in roccia scura erano stampate grezzamente delle rune nere, che come per magia eliminavano il desiderio di varcare la soglia a coloro di ideologia troppo distante a quella degli Dei Oscuri in questione.
E infine vi era una stanza spoglia e priva di pavimento roccioso ma bensì esso era costituito da terreno soffice. Essa, suggerita da Lelild, soddisfava il quesito sollevato: “E se dovessimo seppellir qualcosa?” e portava il nome della Stanza della Terra.

Sempre nel sotterraneo un incantesimo Porta in Fase occultava un passaggio segreto sotterraneo che conduceva fin fuori dalle mura cittadine, sbucando in una grotta seminascosta. Era un passaggio utile per poter entrare ed uscire dalla città in qualsiasi momento.

La calce per edificare le pareti della Tana era stata amalgamata con acqua consacrata e la statua di sir Reginald, devota alla divinità dei cieli, proteggevano i piani in superficie della costruzione, rendendoli un luogo sacro.
I piani sotterranei invece erano stati dissacrati con riti profani dedicati a Wee Jas e a Ner’zhul e gli altari nei piccoli templi fungevano da catalizzatore per l’energia negativa.
In questo modo la casa aveva una buona protezione dalle forze malvagie e forniva anche un ambiente ove la necromanzia e le arti oscure fossero facilitate.

Il caro Lelild disse un dì “Non puoi rubare ad un ladro”.
Seguendo questo proposito, sotto spinta di Nardu e Durlach, le Ombre del Crepuscolo organizzarono un sistema di protezione per l’intera casa, in modo da evitare furti e attacchi.

Innanzi tutto si decise di seguire il principio secondo cui gli affari della gilda devono restare tali, perciò sulla casa furono lanciati incantesimi come Schermo, Celare e Santuario Privato di Mordenkainen che provvedevano a occultare sia ad osservatori ed ascoltatori che a scrutatori magici la presenza di persone nella casa e le loro attività. Chiunque avesse osservato direttamente o meno la casa l’avrebbe vista sempre deserta e non avrebbe udito alcun rumore giungere dall’interno.
Per evitare l’accesso da altri piani o a individui in grado di viaggiare grazie alla magia fu lanciato anche un incantesimo di Serratura Dimensionale. Inoltre per nascondere ogni tipo di aura magica e far sembrare l’edificio normalissimo anche sotto questo punto di vista fu organizzato un incanto Aura Magica di Mystul.

Molto importante fu poi il discorso di controllare chi entra e chi esce dall’edificio, perciò sulla serratura dell’unica porta d’accesso, l’ingresso principale, su lanciato l’incantesimo Serratura Arcana aggirabile unicamente dalle chiavi create appositamente. Ogni membro della gilda possedeva la propria chiave magica in grado di aprire la serratura altrimenti infrangibile.
E per aumentare la sicurezza e dare anche un aspetto scenico ai possedimenti delle Ombre, le due querce in giardino furono animate da incantesimi del livello di Querciaviva, in modo che due Treant intimassero gli sconosciuti sull’uscio di presentarsi e tenessero lontani quanti si fossero dimostrati pericolosi.

Su suggerimento particolare di Nardu su ogni serratura, finestra, porta e meccanismo furono eseguiti incantamenti come Trappola di Leomud, che secondo l’elfo avrebbero rallentato ogni ladro che si fosse preso la briga di controllare le vie d’accesso grazie a trappole illusorie. Un piccolo accorgimento degno di un esperto di trappole.

Per concludere il tutto al calar del sole o quando non vi era nessun componente delle Ombre del Crepuscolo in casa un incantesimo di Allarme si attivava sull’edificio, suonando in caso d’incursioni sia nei dintorni che nel pensiero dei membri, e Glifi d’Interdizione Superiore si attivavano su porte e finestre, provocando esplosioni sonore sugli intrusi che osassero non solo varcare, ma anche solo forzare gli accessi. Tutti questi erano disattivabili unicamente pronunciando la parola di comando, che ad ogni attivazione, veniva magicamente trascritta su una pergamena esposta nell’ingresso e celata agli estranei con Scritto Illusorio.

Sparsi per la casa poi, Nardu e Durlach, piazzarono diversi dardi e aghi avvelenati che entravano in funzione ogniqualvolta venissero attivati, con parola di comando, i sistemi di difesa secondari della Tana.
Questi meccanismi poi, s’intensificavano nel sotterraneo, con dardi multipli e numerose Frecce Acide di Melf ad attivazione sincronizzata.
Per concludere il passaggio sotterraneo che conduceva fuori dalla città era protetto da una trappola a masso e il corridoio sotterraneo da una trappola ad Allucinazione Mortale e da una a Lamento della Banshee.

Nella sala dell’ingresso, su insistenza di Mek, la statua del paladino era stata investita dall’artificio Bocca Magica che le concedeva la possibilità d’avvertire gli intrusi con queste parole:
“State violando la dimora delle Ombre del Crepuscolo. Fuggite sciocchi, o perirete.”
Detto ciò la statua era in grado di attaccare gli intrusi con la propria spada se questi non avessero fatto dietrofront.

La Tana soddisfava a pieno le esigenze dei suoi abitanti e garantiva, oltre a comodità e spazio per le proprie attività, sicurezza e affidabilità. Nonostante le riserve auree delle giovane gilda fossero risultate quasi totalmente prosciugate a causa dei costi nessuno rimpianse una sola moneta d’oro.

Edited by Nardu - 14/7/2008, 19:47
 
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