| Giorno trentunesimo del Quinto mese. Anno Cento.
Finalmente era giunto il giorno in cui io e mio fratello avremmo potuto dimostrare il nostro valore agli occhi dell’intera gilda. Ci eravamo allenati molto ed avevamo cercato qualche impresa degna di noi e che avrebbe costituito una prova inconfutabile delle nostre capacità. Nella sede della gilda esistevano zone celate ed oscure ove segreti nascosti erano tanto antichi quanto pericolosi da tener lontani anche i grandi maestri delle Ombre. In questi antri abbandonati vi erano prove che permettevano ai membri della Gilda di acquistare nuovi poteri, se superate con successo.
Io decisi di affrontare la sfida della spada degli assassini. In una delle zone proibite vi era una spada dalla storia nebulosa ma ogni Ombra sapeva che il possessore avrebbe guadagnato un potere ineguagliabile. Nessuno era tornato indietro dalla prova e per questo il motivo dovevo portarla a termine io. Avrei avuto diritto ad essere chiamato assassino della Gilda.
Durlach, da sempre attratto dall’arte dell’uccidere a distanza, decise di affrontare la prova chiamata l’abbraccio della morte. Non si sapeva molto, ma ci si basava sul racconto di un sopravvissuto, che pur non essendo riuscito a superare la prova, era sopravvissuto. Il povero assassino, da quando era tornato, non era più stato lo stesso: farneticava cose senza senso e parlava dell’abbraccio degli inferi.
Varcai la soglia senza pensare molto e subito mi trovai in un lungo e stretto corridoio. Dovetti camminare per diversi minuti a passo spedito per arrivare ad un grande atrio illuminato da alcune torce. Dall’altra parte dell’altro vi era, poggiata su un tavolo in ebano, una spada. Mi guardai intorno, sicuro che vi dovesse essere qualche sorta di trappola, eppure non trovai nulla che potesse sembrare un’immediata minaccia. Vi erano tre arcate per lato e sotto ogni arcata vi era una statua raffigurante un possente combattente. Le lastre di pietra di forma esagonale erano di tre colori differenti, rosso, nero e bianco, e formavano dei disegni complessi e articolati. Sul soffitto erano attaccate delle statue raffiguranti dei gargoyle a testa in giù e apparentemente immobili.
Mio fratello osservò la soglia: una porta di metallo antico e consunto, coperto da segni e graffi. Delle parole in runico serpeggiavano lungo il bordo, ma lui non ne comprese il significato e le ignorò. Oltre la soglia l’oscurità regnava sovrana e nemmeno gli occhi abituati alla permanenza nella tenebra di Durlach riuscivano a distinguere le immagini. Solo un corridoio nell’ombra, stretto e lungo, era visibile, illuminato da linee argentee. Non vi era traccia di pareti.
Avanzai guardingo. “Desideri tu la spada?” Mi chiese una voce senza origine. “Sì ...” Riposi semplicemente. “Per quale motivo vuoi la spada?” Chiese nuovamente la voce. “Per dimostrare di essere un valido assassino e vi riuscirò.” Risposi a mento alto. “Dimostrami di essere degno!”
Il corridoio terminò in una specie di area circolare. “Per quale motivo sei qui?” Sussurrò una voce. “Voglio sottopormi alla tua prova e superarla.” Rispose Durlach. “Perirai nel tentativo.” Minacciò. “Questo sta a me deciderlo!” Sputò mio fratello con ferocia.
Gli esagoni sul pavimento di color bianco vibrarono e all’improvviso lame acuminate schizzarono verso l’alto. Fortunatamente gli anni d’allenamento diedero i loro frutti eppure ciò non mi permise d’uscirne incolume. Il mio braccio sinistro iniziò a sanguinare violentemente. Le lame si ritrassero. Le statue sotto le arcate presero a muoversi e impugnando le proprie armi mi attaccarono. Erano lente e goffe, anche se i loro colpi particolarmente violenti, ma non correvo rischi. Estrassi la daga e mi lancia all’attacco sul primo, schivando il suo fendente. La mia lama colpì in pieno viso il mostro di roccia, che m’ignorò e perseguitò nella lotta. Vi furono diversi scambi di attacchi violenti e dopo un tempo che mi sembrò interminabile la stanchezza iniziò ad impossessarsi del mio corpo. Io sanguinavo sia dal braccio ferito sia dal fianco e probabilmente dovevo avere alcune costole fratturate, i guardiani di roccia erano incolumi. Ogni mio colpo si era rivelato inefficace, la mia lama non riusciva a scalfire la loro corazza.
Il corridoio alle spalle svanì e per un attimo rimase solo il silenzio e il buio a far compagnia all’elfo. Poi l’intero ambiente s’illuminò, assumendo un offuscato colorito rosso fiamma; la luce proveniva dal basso. Durlach, resosi conto di essere su una sorta di piana di roccia sospesa nel vuoto, si avvicinò al bordo e scrutò sotto di lui: un inferno di fiamme e anime che si lamentavano contorcendosi ed esigendo nuova compagnia. Mio fratello sgomento si guardò intorno: diversi blocchi di roccia, più piccoli e più grandi, sostavano sospesi a mezz’aria su diverse altezze. Alcuni di essi erano congiunti da percorsi in roccia, altri da corde e funi, altri ancora del tutto isolati. Su quasi ogni blocco vi era un’arma: archi, pugnali da lancio, shuriken, cerbottane, fionde.
Passarono quelle dovevano essere ore e ormai ero ridotto in ginocchio. Non sapevo come contrastare quella minaccia. Avevo addirittura tentato di far scontrare i guardiani tra di loro, ma questi si erano colpiti con violenza senza scalfirsi minimamente. Un colpo di mazza di mancò di un soffio, ma fui costretto ad indietreggiare verso un altro che con un fendente mi strappò la daga di mano.
Improvvisamente il blocco di pietra su cui si trovava iniziò a vibrare e sgretolarsi. Durlach dovette balzare da dove si trovava ad un altro blocco, decisamente più piccolo e si voltò. Il pavimento dov’era prima svanì cadendo tra le fiamme molto più in basso. L’elfo non riusciva a capire in cosa consistesse la prova. Poi vide. Al centro di quel complesso di rocce vi era, ad una notevole distanza, una bolla arancione. Mio fratello raccolse l’arco e la freccia poggiati sul masso dov’era e fece per prendere la mira. Il masso sotto di lui vibrò e si sgretolò in un baleno.
Rotolai pochi metri più in là e guardai inerme i miei esecutori che si avvicinavano. Ero stato privato della mia arma, delle mie energie e le braccio ormai steso lungo il fianco. Ero stato uno sciocco a credere di poter superare la prova che era costata la vita a tanti abilissimi assassini.
Saltò all’ultimo secondo aggrappandosi ad uno sperone di un altro masso, ma perdendo l’arco che rovinò in basso con le rocce. Durlach fu costretto a saltare di roccia in roccia, sfruttando le corde e i passaggi, raccogliendo quando possibile ogni arma, ma mai aveva il tempo per prendere la mira.
Senza pensare misi mano al mio flauto e lo portati alla bocca. Se dovevo morire avrei voluto farlo suonando il mio carissimo strumento. Intonai una melodia di odio e rabbia. Ma mano che suonavo notai che i guardiani divenivano sempre più lenti ed ad un certo punto si fermarono. Uno di essi si sbriciolò davanti ai miei occhi; nel giro di pochi minuti dei guerrieri non restava più nulla. Li guardai incredulo.
Ormai gli appoggi erano quasi terminati. Ne rimanevano due, poi cosa avrebbe fatto? Il santo nel vuoto sarebbe stato inevitabile. Raccolse una fionda armata di proiettile incendiario, puntò un ginocchio e tese la corda. La terra sotto di lui iniziò a vibrare pericolosamente, ma lui non si scostò. Vedeva la bolla davanti a lui ed un attimo prima di crollare nel vuoto scagliò. Mancò il bersaglio di un soffio. Tutto cadde. Fortunatamente l’ultima roccia era praticamente sotto e vi cadde addosso. Quivi vi era un pugnale da lancio di ottima fattura. Lo raccolse e quando sentì tutto cedere sotto di lui fece una pazzia. Si lanciò nel vuoto in direzione della bolla e cadendo prese la mira: lanciò e colpì il bersaglio.
Smisi si suonare e trascinando a fatica il mio corpo esausto mi avvicinai alla mia arma, raccogliendola. Non vi furono reazioni. Iniziai a camminare verso la spada. Nulla sembrò accadere. Raggiunsi la tavola, dove su dei cuscini di velluto essa era posata. La osservai. Un nastro viola e nero ne ricopriva l’elsa, mentre due lame sorelle d’adamantio si diramavano in due direzioni opposte. Una di esse, con venature azzurre, presentava alla base un serpente argenteo, come se il destino avesse voluto che essa fosse mia; ella era la lama di destra. La sorella, con venture rubino, portava alla base un teschio e aveva l’aria di esser molto più spietata dell’altra.
Tutto acquistò una consistenza e le fiamme sotto di mio fratello svanirono. Davanti a lui vi erano un arco elfico composto con un legno fantastico unito ad una faretra nera e ricoperta di ricami argentei. Intorno all’arco vi erano tre pugnali illuminati da una flebile aura azzurro-grigia. “Questo è il dono per chi ha la mira dell’Assassino.”
Allungai la mano e afferrai la spada. Un sorriso si dipinse sul mio volto.
Allungò le braccia e legandosi arco e faretra dietro le spalle, mise i pugnali alla cintura.
Da quel giorno fummo Assassini della Gilda, ma non Ombre. Eravamo i Fratelli Shibi. Avremmo dovuto girare il mondo e scoprirlo, per poi tornare per l'Iniziazione. Smisi di scrivere il mio diario, che lasciai alla Gilda e decisi di tenere delle memorie del mio viaggio.
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