[MdT - Apocalittico] Carlotta Schmidt

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Nardu
view post Posted on 26/7/2009, 20:29




8 Aprile 1820
Mattina - Casa Schmidt



La piccola Carlotta era a tavola a mangiare pane biscottato ricoperto da una buonissima marmellata all’albicocca, confezionata in casa. La madre, Sarah, le colorava le fette usando il coltello e sorridendo. Tra le due donne vi era una sintonia femminile che un uomo non avrebbe mai potuto comprendere.

Quand’ecco dei passi venir dal piano di sopra. Immediatamente la ragazzina si precipitò in salotto aspettando un ben noto evento. Era quasi un rito per lei, una prassi, eppure la cosa le riempiva il cuore di gioia ogni volta, come fesse stata la prima.
I passi sulle scale in legno terminarono, seguiti da pochi movimenti sul pavimento ricoperto di parquet; una corpulenta figura fece capolino nella stanza e sorrise alla piccola.

Il “fratellone”, come lo chiamava lei, le andò incontro, dopo aver salutato la madre, per poi cingerla tra le braccia e sollevarla. Sulla schiena li portava una sacca con la divisa e tutto l’occorrente per giocare.
Entrambi sorridevano guardandosi e il forte amore fraterno che li legava era tanto intenso da esser visibile ad occhio nudo. La madre guardava i propri ragazzi felici e si rincuorava d’esser riuscita a crear una famigliola felice, nonostante la mancanza della figura paterna.
Carlotta vedeva in Ludovico il padre che non aveva mai avuto e la roccia a cui aggrapparsi nei momenti tristi.

In quella giornata di sole, l’uomo di casa si preparava per dirigersi alla partita e giocare per tener alto l’onore della squadra.
Le due donne lo avrebbero salutato sulla soglia per poi raggiungerlo al campo a fare il tifo.
“Ciao piccola, io vado. Vi aspetto al campo. Mentre non ci sono, fai quello che dice mamma e quando arrivi fai il tifo per me.” disse il fratello alla piccola tra le braccia e lei gli sorrise di rimando, prima di esser posata a terra. Dopodichè il ragazzo uscì sventolando una mano.

“Cara, io oggi ho un sacco di faccende da sbrigare. Te la senti di andare da sola a tifare tuo fratello?”
La bambina annuì, orgogliosa di quella, seppur piccola, dimostrazione di autonomia.
“Però prendo la bicicletta…!” Aggiunse con un tono e un’energia che non concedevano repliche.
“Aiutami prima a sistemare la tavola e metti al loro posto le bambole. Poi potrai andare, se mi prometti di far attenzione per strada.”
Nuovamente ci furono assensi e sorrisi.

8 Aprile 1820
Tarda mattina - Campo da rugby di Fonte della Roccia



Sulla soglia della porta fu l’ultima volta che vidi mio fratello. Arrivata al campo non riuscii a trovarlo con lo sguardo e soprattutto non lo vidi giocare.
Rimasi stupita della cosa, ma in fondo non ci diedi un peso eccessivo: avrei aspetto la fine dei giochi per chiedere ai compagni di squadra.

Purtroppo scoprii che Ludovico non arrivò mai al campo quel giorno e le ricerche che seguirono nei giorni successivi, anche con l’aiuto delle autorità, si rivelarono del tutto inutili.
Di mio fratello non vi fu più traccia.
Tutti dissero che era stato rapito per chiedere un riscatto o per ricattare la famiglia, ma nulla di tutto ciò si verificò.
L’unica cosa che so per certo è che quel giorno rovinò in gran parte la vita mia e quella di mamma.

24 Ottobre 1841
Tardo pomeriggio – Cimitero di Fonte della Roccia



Era stato un pomeriggio cupo e nebbioso, accompagnato da una leggera pioggerellina autunnale, ma ormai il sole iniziava a lasciare il predominio al calar delle tenebre.
La sfilata di ombre in lutto coperte da cupole nere, dava al colle un aspetto ancor più macabro.
Terminato il funebre rito le ombre svanirono in massa. Parole di cordoglio e frasi di circostanza riempirono il silenzio per diversi minuti, ma poi tutto tornò com’era.
Carlotta rimase infine sola. Terribilmente sola.
Il suo sguardo ebbe la forza di alzarsi dai calzari per posarsi sulla lapide che le stava di fronte, ma leggere il nome di propria madre al fianco della marmorea frase “I figli posero…” le straziò il cuore di dolore e le rigò il volto con lacrime amare.

La strada verso casa fu lunga e breve allo stesso tempo. I passi avanzavano distratti mentre la mente della donna divagava su dolori passati e presenti: la malattia che in pochi mesi le aveva strappato la madre, la sparizione misteriosa dell’amato fratello due decenni prima e la morte del padre quand’ella aveva solo pochi mesi.
Così riflettendo si rese conto di aver perso praticamente tutto ormai e fu così che, tra l’amaro in bocca per il dolore e il viso umido per la pioggia , Carlotta arrivò a pochi isolati da casa.
Un rumore di passi alle sue spalle la destò, spingendola a guardarsi indietro; non ebbe il tempo di reagire che un uomo mai visto prima già la copriva con il proprio ombrello.
Lo sguardo di lui subito si posò sul corpetto nero ormai fradicio e la gonna scura resa aderente dall’acqua. Lei lo guardò con uno strano interesse, come per carpirne qualcosa, ma i semplici vestiti da garzone non le rivelarono nulla.

“Cosa fa una così graziosa fanciulla in giro di notte tutta sola? E sotto la pioggia per giunta, senza ombrello.”
Non era il momento adatto per perder tempo con uno sconosciuto e soprattutto i pensieri di Carlotta erano rivolti a tutt’altre questioni. Perciò rispose con modi pacati.
“Lasciatemi in pace…”
E allungò il passo. Lui la raggiunse di nuovo e si allungò per coprirla con l’ombrello.
“Andate a casa? Certo che state andando a casa a quest’ora. Vi accompagno, non posso lasciarvi tutta sola. Me ne piangerebbe il cuore.”
La donna si volse rapidamente verso l’uomo con uno sguardo duro, pronta a sfogare tutto il dolore che teneva dentro su quello sconosciuto. Il tono della voce divenne alto e tremante.
“Sparisci! Sparisci! Sparisci! Levati di torno…” prese in mano l’ombrello, gettandolo a terra con violenza, “…lasciami in pace…” e diede un paio di spintoni all’uomo, col viso umido non solo per la pioggia, “…non voglio nessun aiuto, nessuno compagnia! VOGLIO STARE SOLA!”
Urlò e corse via. Nel buio e nella pioggia corse senza una direzione. Gli occhi gonfi di lacrime, il cuore pieno di dolore, la gola secca per le grida e i muscoli tesi per la rabbia. Avrebbe voluto cambiare tutto. Avrebbe voluto distruggere tutto ciò che la rendeva triste e poi essere di nuovo felice.
Corse finché le gambe ressero e poi cadde a terra sulla strada di ciottolato bagnato. La gonna si strappò e sporcò, mentre il corpetto pesava un’enormità.

“Ecco cosa cercavo in te. Quella grinta di un attimo fa.”
Carlotta si guardò intorno all'improvviso in cerca della fonte di quella voce lugubre e fredda: non vide nessuno.
“Ora voglio che tiri fuori quella rabbia mia cara...”
La donna sentì una vampata d'aria gelida improvvisa e si sentì afferrare il collo, un attimo prima di essere scaraventata violentemente contro il muro lì affianco. Ebbe un mancamento e la vista gli si annebbiò.
Quando si riebbe un uomo stava in piedi di fronte a guardarla: era il garzone di prima, ma sul volto portava un ghigno maligno e al tempo stesso enigmatico.
Non ci furono altri scambi di parole ed in un attimo lui le saltò letteralmente addosso azzannandola al collo.
I primi attimi per lei furono un dolore incommensurabile, sostituito poco dopo da un senso di piacere e soddisfazione talmente appagante che lei pregò di morire in quell’istante pur di non ricadere nell’odiata vita reale.
In un certo senso il suo desiderio si avverò e tutto cadde nell’ombra per Carlotta.

16 Novembre 1841
Sera – Casa Schmidt



E’ già passato un mese da quando sono stata Abbracciata da quel farabutto. Per colpa sua la mia vita, per quanto possa sembrare impossibile, è peggiorata.
Non solo avevo perso tutto ciò che di più caro al mondo avevo con la morte di mia madre, ma ora ero anche stata privata della mia anima, condannata a viver per sempre, a soffrire per sempre, a nutrirmi di coloro che prima erano miei simili, conoscenti e amici.
Sono stata dannata e ho dovuto sacrificare quel poco che ancora avevo, ciò che ancora chiamavo “vita”, per non svanire per sempre dimenticata da tutti.
Ora sono un Vampiro.
Se me lo avessero detto due mesi fa avrei chiamato la Casa dei Matti, eppure ora tutto questo è realtà.
Ma in fondo la vita da vampiro segue le stesse regole della vita da mortale.
Il mio Sire, se così si chiama colui che mi ha trasformata, è il tipico pessimo genitore, che prima mette al mondo un figlio e poi lo abbandona al suo destino lavandosene le mani, incurante delle conseguenze.
Gli altri vampiri sono come i vicini fastidiosi, pronti a metterti in cattiva luce davanti alle autorità, che tra le tenebre portano il nome di Principe, Sceriffo e Flagello, pur di poter parcheggiare loro sul vialetto al posto tuo.
La legge è a favore di chi comanda, sempre e comunque, esattamente come tra gli umani: io ho bevuto il sangue di un vampiro, mentre lottavo per sopravvivere, e ho infranto La Tradizione, come la chiamano loro, mentre loro che vogliono bere il mio sono giustificati.
Ma non m’interessa.
Se a qualcosa è servita questa situazione è a farmi capire che non posso più piangere, non posso più lasciarmi scavalcare dagli eventi, ma devo lottare sempre.
Ucciderò chiunque cerchi d’incatenarmi o morirò nel tentativo, ma sarò libera di vivere la mia vita, sia essa una maledizione o meno.

Purtroppo qui la situazione si fa critica e i Fratelli che bramano il mio sangue sono sempre più. Devo lasciare per sempre Fonte della Roccia.

13 Dicembre 1841
Notte Inoltrata – Cimitero di Fonte della Roccia



Era notte inoltrata e la grande luna piena rischiarava appena l’ambiente a causa del cielo tappezzato di nuvole.
Carlotta, dopo essersi preparata psicologicamente a partire e dopo essersi assicurata di aver sparso false tracce sulla strada che avrebbe intrapreso, era ormai giunta agli addii con la propria terra natia. Prima d’abbandonar per sempre Fonte della Roccia, però, la ragazza aveva un’ultima tappa: il cimitero.
Sempre, dalla scomparsa del fratello, madre e figlia s’erano recate periodicamente al capo santo a porger saluto al capofamiglia, venuto meno da ormai molto tempo, e ora che mamma Sarah non vi era, più la donna sarebbe andata alle lapidi dei propri cari da sola.

Era la prima volta che la donna andava al cimitero in orari notturni e il paesaggio le sembrava alquanto lugubre e minaccioso.
Attraversò con cautela il cancello d’ingresso al campo santo; sapeva che non vi era un guardiano notturno, ma le sue preoccupazioni erano rivolte ai Fratelli.
Un irto labirinto di lapidi e mausolei si estese dinnanzi a Carlotta, gran parte celato dalla nebbia e dall’oscurità. Si concentrò per diversi secondi chiudendo gli occhi e quando li riaprì erano più luminosi e quasi visibili al buio.
“Ora ci vedo…” pensò “…è da quando ho morso quel Vampiro ch’era venuto per uccidermi che i miei sensi sono più sviluppati. Chissà per quale motivo.”

Non ci mise molto a districarsi in quel funebre luogo, ormai reso familiare dalle numerose visite passate, e raggiunse la prossimità del colle dove i suoi genitori riposavano in pace.
Arrivata ad una decina di metri dalle lapidi dei familiari la donna s’inchiodò: dinnanzi a lei una presenza catturò la sua attenzione spaventandola.
Vi era un grande individuo chino sulla lapide di sua madre. Era particolarmente robusto e possente e sicuramente sarebbe stato in grado di farle un gran male con quelle mani.
Essendo di schiena non riusciva a distinguerne la natura, ma la donna era convinta si trattasse di un altro Vampiro pronto ad aggredirla.

Costui si voltò all’improvviso nella direzione di Carlotta, che scattò il più rapidamente possibile dietro ad una lapide per nascondersi.
Ci furono diversi attimi di silenzio. Poi l’uomo tornò alla propria preghiera, probabilmente ignaro della presenza della predatrice.
La non-morta iniziò a muoversi con cautela di lapide in lapide, prestando attenzione a non far rumore. “Probabilmente non mi ha vista!” rimuginò tra sé e sé.
Quando giunse a pochi metri si concentrò sulle proprie mani fissandole intensamente: era questa la “dote” che le aveva salvato la vita negli ultimi giorni.
Le dita si allungarono rapidamente, seguite dalle unghie che s’ispessirono e crebbero, il tutto con una rapidità sovrannaturale e una strana sensazione di fastidio nella donna. Quando il processo finì la vampira era armata di artigli letali e pericolosi.
Iniziò nuovamente ad avvicinarsi in silenzio, sicura di cogliere alle spalle l’uomo ignaro.
Gli ultimi passi che dividevano i due non offrivano nessuna copertura, perciò la donna si trovò a percorrerli allo scoperto. Stava per colpire con i propri artigli quando all’improvviso l’uomo nerboruto si voltò di scatto, facendo un passo indietro, e le urlò alzando il dito “Fermati!”.

Quell’ordine esercitò uno strano potere nella vampira che rimase paralizzata ad osservare il suo avversario. Era particolarmente possente e muscoloso, ricoperto da un folto pelo su braccia e busto e il viso seminascosto da una barba incolta. Attraverso la giacca aperta s’intravedeva il fisico atletico e animalesco oltre ai segni di orribili ferite. Sul volto, sugli arti e su ogni altra parte del corpo vi erano tagli, squarci e ferite di ogni genere. Gli abiti era zuppi del sangue di quell’uomo che scorreva copioso dalle incisioni più profonde.
Carlotta si convinse ancora più che quello doveva essere un vampiro per sopravvivere ad un tale decadimento fisico, eppure nell’odore del suo sangue vi era qualcosa di diverso.
Lui scrutò la propria preda con interesse, avvicinandosi molto e annusandola. Nei suoi occhi vi era qualcosa di la donna non riusciva a decifrare.

“Ora rispondi alle mie domande.” Sentenziò una voce grossa.
Le membra della donna vennero liberate da quella volontà inarrestabile, ma lei rimase comunque immobile a osservare il nerboruto essere, temendo seriamente per la propria vita.
“Cosa vuoi da me? Perché stavi per aggredirmi?”
“Io non ti conosco. Temevo fossi tu a dar la caccia a me.”
“E perché dovrei cacciare un vampiro secondo te? Cosa ci fai qui? E’ il tuo Dominio questo cimitero?”
“Non so cos’è un Dominio e non so perché tutti i vampiri vogliono la mia testa. Ero venuta qui per salutare i miei genitori defunti.”
“Qual è il tuo nome?”
“Carlotta Schimdt.”
L’uomo ebbe un mancamento e indietreggiò di pochi passi.
“Sei qui per uccidermi, vero?” chiese la vampira a detti stretta. Non si sarebbe fatta sottomettere.

“Il mio nome è Ludovico Schimdt…”
Il volto della ragazza fu scosso da un fremito e una serie d’immagini l’inondò: ricordi di tempi passati, dolori repressi e affetti perduti. Dinnanzi a lei stava il fratello tanto amato e per decenni rimpianto.
“Non…è possibile…” disse con voce rotta.
“Vieni con me…”

18 Marzo 1901
Notte – Locus dei Predatori



Son passati anni da quando sono andata via con Ludovico e la mia vita è cambiata nettamente, ancor più che dopo l’abbraccio.
Ho scoperto il suo territorio, la sua tradizione e il suo modo di vivere. Ho scoperto cosa significa essere una creatura soprannaturale e cosa significa nascondersi agli umani mortali.
Mio fratello mi ha educata, spiegandomi molto di ciò che va oltre l’umana conoscenza e la mia passione ha fatto il resto.
L’ho aiutato nel controllare il suo territorio, a tener d’occhio quelli che lui chiamava “Sangue di Lupo” e nelle lotte contro le minacce dell’Equilibrio.
Conoscendo lui ho imparato a conoscere meglio me e gli altri. Qualsiasi cosa essi siano.

Nel corso degli anni vissuti con lui ho incontrato altri Rinnegati, ma eran sempre schivi nei miei confronti e di rado mi rivolgevano più di qualche parola di rito e quando lo facevano mi chiamavano con disprezzo Muth Luzuk, ladra di sangue. Vedevo che vi era astio tra lui e loro eppure ero esclusa dalle battaglie del mio consanguineo. Mentre lui lottava le mie guerre, al mio fianco, contro altri vampiri o contro gli umani per proteggermi e nascondermi, io ero impotente nelle sue.

Crebbi come vampira, grazie alla protezione offertami da Ludovico, e imparai ad usare meglio i vantaggi offerti dalla maledizione. Affinai il mio lato animale e imparai a sopravvivere ad una vita selvaggia, esattamente con un lupo mannaro.
Le affinità tra le due razze si accentuarono e le differenze si assottigliarono.
Io e mio fratello eravamo autonomi e perfettamente in grado di viver da soli.

Poi venne il giorno.
Era notte tarda e attendevo il suo ritorno.
Aspettavo in una grotta, la nostra grotta, all’interno della foresta. Fuori vi era la pioggia. Una forte pioggia.
Udii dei passi avvicinarsi e subito li riconobbi. Attesi dissimulando la mia trepidazione: prima di andar via Ludovico mi aveva avvertito che quella sarebbe stata una notte importante.
Quando entrò nella grotta lo guardai con occhi sgranati.

Il suo corpo era storpiato e ferito. Il suo sangue veniva lavato via dalla pioggia e della sua essenza vitale poco restava. Non ebbi il tempo di parlare, fui lui a precedermi.
“Dobbiamo andare via di qui. Per sempre.”
Non capii. Non chiesi.
Lui era mio fratello, la mia guida e il mio protettore. Di lui mi fidavo ciecamente.
“Andiamo…”
 
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