| Cercai per molto tempo il giusto, ma non riuscii a trovarlo. Devo dire che non sapevo bene nemmeno dove cercarlo.
Vissi molto a lungo, rispetto alla sorte solita di quelli come me, tanto che diventai per i miei padroni un gioco e una fonte di scommesse. Mi trascinavano in ogni situazione suicida e in ognuno dei loro divertimenti, ma io, per mia sfortuna, sopravvivevo. Le mie ferite guarivano velocemente e resistevo alla fatica e al dolore molto meglio degli altri come me, ma a tenermi in vita era quel senso di dovere che m'imponeva di non lasciarmi andare. Non riuscivo a suicidarmi. Sentivo che c'era qualcosa di più e che mi spettava qualcos'altro.
Purtroppo quando scoprii la mia vera natura, all'età circa di cinquant'anni, il mio mondo e la mia situazione non cambiarono molto, e anzi, quel poco che cambiò fu in peggio. La mia prima muta avvenne...
...in una notte di pieno inverno mentre luna in cielo splendeva alta, solo per metà. Mi avevano trascinato in catene ad un borgo che mostrava i segni di una battaglia recente. Ne avevo visti molti così nel corso degli anni, perciò sapevo che si trattava di una "nuova conquista". Una volta arrivati mi ritrovo in un grosso capannone dove fanno entrare gli abitanti sopravvissuti. Sono tutti ammanettati, col capo chino e i volti rassegnati. Mi dicono di dividere gli uomini dalle donne, i vecchi e i bambini dagli adulti.
Io eseguo nonostante l'odio che vedo negli occhi di coloro che afferro. Ho i fucili puntati alle spalle e so che alla prima mossa sbagliata dei prigionieri non esiteranno a far fuoco sia su di loro che su di me.
Poi raggiungo una bella donna, con una bambina aggrappata alla gonnella e un uomo che le sussurra parole di conforto all'orecchio. Faccio per afferrarla e lui mi guarda in cagnesco, eppure mi lascia fare. La bambina invece scoppia a piangere e non si vuol staccare dalla madre. Io tento con modi gentili di non farle del male, ma lei non collabora. Un soldato mi getta quindi una pistola e mi fa segno di farla tacere. Recupero la pistola senza obbiettare e la punto verso la fronte della bambina, ma immediatamente l'uomo incatenato si getta su di me, facendomi cadere. Si svolge tutto in un istante e un paio di colpi di fucile partono da un ufficiale: il primo ammazza l'uomo e il secondo fa saltare la testa alla bambina. Io mi rialzo e afferro la donna per un braccio. E' sotto shock. Ha il sangue della figlia sul vestito e il corpo del marito morto ai piedi. Io la porto da parte insieme alle altre.
Quando l'operazione di divisione è terminata un militare di alto rango passa tra le donne scegliendo le più attraenti, che subito vengono condotte fuori dal capannone. Intanto gli altri prigionieri vengono tenuti inchiodati ai muri sotto la minaccia delle armi. Quando la selezione termina e l'ufficiale esce, fa segno di via libera verso i suoi sottoposti. Immediatamente un gruppo di militari, evidentemente accordato prima, inizia a spartirsi le donne rimaste e senza tatto o pudore ne abusa sotto gli occhi attoniti dei familiari.
Un moto di rabbia cresce dentro di me, accompagnato dall'impotenza. Vedo i prigionieri presenti e leggo nei loro occhi la stessa ferocia che sento io. E la rabbia cresce. Subito qualcuno muove un passo e senza esitazione viene fucilato seduta stante. E la rabbia cresce. Le urla delle donne si levano alte mentre cercano di preservare la propria femminilità e il proprio sé più intimo. E la rabbia cresce. Vengono picchiate, stuprate e costrette a subire senza null'altro da fare che gridare. E la rabbia cresce. I bambini piangono vedendo le proprie madri così schiavizzate. E la rabbia cresce.
Poi lo scempio si consuma e giunge al termine. I soldati che hanno avuto "l'onore" di sfruttare quelle povere femmine si ricompongono ed escono dal capannone. A mano a mano tutti soldati escono dal capannone e pure io vengono condotto fuori. I familiari possono riabbracciarsi nonostante l'oltraggio. Una volta fuori la porta viene sprangata. Degli uomini prendono delle taniche di combustibile e le spargono tutt'intorno all'edificio.
Qualche minuto dopo è l'inferno. Un inferno di fuoco e grida di sofferenza. La rabbia cresce dentro di me, ma resto fermo ad osservare. I soldati intorno a me ridono, fumano e scherzano tra loro. In una casa lì a fianco una fila di belle ragazze viene fatta entrare una o due alla volta. Quando quella prima esce, un'altra entra. Intravedo dalla finestra l'ufficiale d'alto rango senza i pantaloni. Passa il tempo e le urla piano piano svaniscono dal capannone e resta solo il crepitio delle fiamme.
Ad un tratto mi accorgo di un ragazzino che si avvicina dalla strada. Osservandolo meglio non dimostra neanche dieci anni. E' poco vestito, sporco e infreddolito. Mi passa abbastanza vicino da farmi notare che è bagnato, nel bel mezzo di questo freddo mortale. Ha le mani tendenti al blu, la faccia pallida, lo sguardo vacuo e stringe tra le braccia un secchio pieno d'acqua. Arriva in prossimità del capannone e getta sulle fiamme il liquido trasportato.
In un attimo la rabbia dentro di me, mossa da qualcosa di recondito, raggiunge il punto di rottura. Devo cambiare le cose. Il mio mondo non è giusto. Il mio mondo non è questo. "Io sono qualcos'ALTRO!"
La rabbia prende il controllo. Il sangue ovatta qualsiasi cosa. La rabbia mi porta a...
...fare un massacro. Non so bene cosa accadde nell'immediato, ma sentii qualcuno parlarne in seguito. Nessuno aveva più abbandonato quel villaggio vivo, oltre a me. Ad ogni modo mi ritrovarono e mi portarono in gabbia.
Non capii cosa mi era successo e ne fui spaventato. I miei padroni non capirono cosa mi era successo, ma ne furono felici. Se prima era diventano un gioco per loro, adesso ero diventano uno strumento.
Per tre secoli fui la loro arma preferita. I miei padroni cambiavano e si alternavano, ma non cambiava il loro modo di fare e le loro richieste. Combattei battaglie e uccisi persone. Per tre secoli vissi nel sangue e nella prigionia.
Il mio istinto mi suggeriva che il mio mondo era ancora sbagliato. Ma non sapevo dove cercare il mio vero mondo.
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